Il 12 agosto del 2021 Herat cadeva nelle mani dei Talebani. Lì dove sorgeva Camp Arena, la più importante base italiana in Afghanistan, sono arrivati gli studenti coranici, con i loro kalashnikov, i loro lanciarazzi e le loro lunghe barbe. Era l’ultima fase dell’offensiva che avrebbe portato alla caduta di Kabul e alla nascita dell’Emirato islamico. Il frutto di un accordo tra Stati Uniti e leadership talebana suggellato con Donald Trump e confermato da Joe Biden, che forse non si aspettavano né un’avanzata così repentina dei miliziani né lo scioglimento come neve al sole del fragile Stato afghano e delle sue forze di sicurezza.
Errori di valutazione su cui gli analisti si sono scervellati per mesi, dando risposte spesso diverse, ma quasi tutte concordi su un punto: l’Occidente non era riuscito a capire l’Afghanistan. Per venti anni, le truppe statunitensi e degli alleati di Washington hanno calcato le strade afghane, hanno combattuto, hanno dato il loro tributo di sangue, hanno provato a costruire un Paese con un conflitto nato come “guerra al terrore” e trasformato in “nation building”. Ma in questo lungo periodo di tempo, venivano commessi gli stessi errori, leggendo la realtà dell’Afghanistan con le lenti di una civiltà distante anni luce da quella della “tomba degli imperi”. Oggi, l’Emirato islamico è una realtà oscura, debole ma paradossalmente consolidata. Nessuno considera il regime talebano come un interlocutore, negando a esso qualsiasi riconoscimento. Eppure, dopo due anni, il Paese è ancora nelle mani degli islamisti, con un equilibrio precario fatto di accordi tra clan rivali spesso ristabilito con il sangue.
Nel frattempo, la popolazione afghana vive una delle più gravi tragedie umanitarie del nostro tempo. E l’ultimo rapporto di Emergency è eloquente. Se all’inizio di quest’anno l’Ufficio per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite parlava di 28,3 milioni di afghani bisognosi di aiuto umanitario, per Emergency si sono già quasi raggiunti i 29 milioni. In Afghanistan manca tutto. E il regime talebano non solo non sa come gestire la crisi, ma non ha neppure i mezzi per farlo. La (vana) speranza della comunità internazionale di vedere un Emirato inclusivo si è rivelata profondamente errata. E lo dimostrano i divieti nei confronti delle donne, private del diritto all’istruzione ma anche al lavoro, con il quale garantivano un minimo sostentamento alle famiglie.
Un dramma a cui il mondo non sa come rispondere. L’Emirato, impegnato nella repressione interna, è terrorizzato dalle ingerenze esterne e dalla possibilità di crollare sotto i colpi di lotte intestine o tra Talebani e altre sigle islamiste. In due anni, l’Afghanistan è diventato un luogo dimenticato dal mondo, con cui i vecchi partner regionali e gli altri vicini non sanno più dialogare. Esistono possibilità di sfruttare alcune risorse, e lo dimostra soprattutto l’interesse mostrato dalla Cina nell’estrazione mineraria.
Ma l’assenza di infrastrutture, di sicurezza e di stabilità rende difficile concretizzare gli accordi.
Inoltre, non mancano tensioni che rischiano di trasformarsi in pericolosi focolai bellici, per quanto localizzati. A fine maggio si sono registrati scontri a fuoco tra guardie di frontiera iraniane e forze talebane nell’area di Sasuli, al confine tra Afghanistan e Iran. Tra i due Paesi c’è un’antica e irrisolta disputa sul corso del fiume Helmand, fondamentale fonte d’acqua per le regioni a ridosso della frontiera. Ma negli anni sono sopraggiunte anche altre divergenze, in particolare quella sul controllo del flusso di migranti proveniente dall’Emirato.
Tutti problemi che si sommano alla tragica quotidianità dell’Afghanistan e che non sembrano trovare risposte né dalla leadership talebana né dalla comunità internazionale. Al punto che qualcuno, come in un’analisi dell’autorevole rivista Foreign Affairs, suggerisce una soluzione difficile ma che rischia di rivelarsi terribilmente necessaria: collaborare con i Talebani per frenare il disastro.
