La scelta sulle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica è esclusivamente e propriamente politica. La disciplina vigente attribuisce, infatti, agli enti di governo dell’ambito territoriale di competenza la decisione su quale, tra le diverse forme di gestione e modalità di affidamento dei servizi, adottare. Le forme ammesse sono le più varie e comprendono l’esternalizzazione a privati, mediante procedure di evidenza pubblica, e l’affidamento a società miste pubblico-private, purché l’individuazione del socio privato avvenga con gare e la gestione diretta da parte dell’ente locale o dell’ente di governo del consorzio fra enti locali, nel caso di servizi di competenza sovracomunale.
In quest’ultimo caso, ciò che rileva è che siano rispettati i principi eurounitari sulla gestione in house che impongono il controllo in forma analoga dell’ente sulla società e lo svolgimento della parte più rilevante dell’attività in favore dell’ente stesso per la società. Le modalità di gestione, sia chiaro, non incidono sulla natura pubblica dei servizi che, in quanto finalizzati al soddisfacimento di bisogni della collettività, sono posti sotto la responsabilità e la cura della pubblica amministrazione. In capo all’ente locale titolare del servizio resta in ogni caso l’attività di programmazione puntuale e strategica che dev’essere fondata su elementi oggettivi di partenza e su dati prognostici affidabili; l’attività di regolazione e l’attività di vigilanza sulla gestione tanto più quando questa viene affidata al privato. Qualunque sia la forma di gestione scelta il ruolo pubblico resta, quindi, centrale non delegabile e non derogabile e dal suo corretto svolgimento dipende in buona parte l’efficienza anche della gestione.
Non si può negare che, negli ultimi trent’anni, si sia assistito a una preferenza per la gestione privata o mista dei servizi pubblici locali, giustificata dall’opportunità di coinvolgere il capitale e il know-how privato per ottenere maggiore efficienza e un uso più razionale delle risorse e, allo stesso tempo, garantire maggiori investimenti. Si assiste oggi, invece, a un ripensamento di questa posizione, anche in ragione del dibattito che negli ultimi anni ha riguardato i beni comuni. Sempre più spesso i programmi politici con cui ci si candida ad amministrare enti locali contengono l’indicazione di una gestione pubblica e diretta dei servizi in questione. Senza entrare nel merito dei diversi modelli, rispetto ai quali la normativa vigente dimostra un’assoluta indifferenza ponendo l’accento più sugli obiettivi che sulle modalità della gestione, una riflessione si impone certamente in ordine all’adeguatezza del sistema organizzativo pubblico nel suo complesso e degli enti locali, in particolare ad assumere completamente su di essi l’integrale gestione di servizi di rilevanza economica. Ciò in ragione sia delle competenze che delle risorse economiche che la gestione di tali servizi richiede.
Le recenti dichiarazioni del Governo in ordine alla necessità di investire sulle competenze professionali nella pubblica amministrazione, oggi del tutto inadeguate in generale e rispetto alle nuove esigenze imposte dalla prossima gestione del Recovery Fund così come la necessità per il governo attuale e per i precedenti di ricorrere a consulenze esterne per la programmazione delle proprie attività, testimoniano uno stato di grave insufficienza della pubblica amministrazione. Del resto, lo stato di sofferenza generale delle amministrazioni per carenza di personale e di fondi ha indotto il legislatore, negli ultimi anni, a sgravare le stesse di una serie di compiti, anche rilevanti, ai fini del corretto esercizio del potere a garanzia sia dell’interesse pubblico sia della certezza del diritto anche rispetto ai terzi.
L’ampliamento, poco accorto e mascherato da fini di semplificazione delle ipotesi di silenzio significativo (assenso e rigetto), del ricorso alla segnalazione certificata di inizio attività e di altre forme alternative al provvedimento espresso che escludono quell’attività istruttoria in cui si realizzano la contemperazione degli interessi e soprattutto la verifica dell’effettiva sussistenza dei presupposti e dei requisiti per lo svolgimento di una determinata azione, stanno producendo danni superiori ai benefici tant’è che si discute dell’opportunità di ritornare a dare centralità al provvedimento, semplificando semmai ulteriormente il procedimento. Se questo è lo stato dell’amministrazione per l’attività istituzionale svolta dagli uffici, che tutto sommato è rimasta negli anni in capo agli enti pubblici, tanto più è legittimo dubitare che le amministrazioni locali siano pronte a gestire nuovamente in modo diretto o mediante società in house attività che oramai non svolgevano più da molti anni e per le quali non hanno risorse e competenze.
La questione non è da poco perché sui servizi pubblici locali si gioca nei prossimi mesi una partita importante. Alcune Regioni, per esempio la Toscana, stanno puntando proprio sulla riqualificazione e l’ammodernamento degli immobili, degli impianti e delle reti funzionali ai servizi pubblici nella loro programmazione finalizzata all’utilizzo dei fondi del Recovery Plan. Bisogna quindi affrontare l’argomento con obiettività, il che non esclude la possibilità di ricondurre nuovamente alla sfera pubblica la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica, come accadde agli inizi del secolo scorso con la prima legge fondamentale sui servizi pubblici del 1903, voluta da Giolitti e ispirata al cosiddetto socialismo municipale. Tale obiettivo squisitamente politico, però, va raggiunto attraverso una visione strategica complessiva, rendendo chiari tempi, modalità e risorse con i quali raggiungerlo.
Esso, inoltre, genera una conseguente responsabilità politica della quale gli organi di indirizzo delle amministrazioni sono chiamati a rispondere, non potendo attribuire alla gestione eventuali limiti discendenti da una carente programmazione, come sempre più spesso stanno ribadendo i giudici contabili i quali riconducono proprio alla responsabilità degli organi politici i danni erariali che discendono da costi o da mancate entrate sopportate dagli enti pubblici per attività mal programmate, a prescindere dalla gestione affidata agli organi di tipo tecnico.
