Sullo sfondo della guerra nella Striscia di Gaza, lo scontro tra Iran e Israele non accenna a placarsi. Dopo l’uccisione di Sayyed Razi Mousavi, comandante dei Pasdaran morto in un raid in Siria attribuito a Israele, Teheran ha giurato vendetta. La ritorsione è già stata annunciata dai vertici iraniani, con il ministero degli Esteri che ha detto allo Stato ebraico di “cominciare il conto alla rovescia”. Ma se al momento è difficile dire come possa concretizzarsi la minaccia, una prima conseguenza di questo avvertimento è stata confermare il rischio di un’escalation incontrollata nella regione.
La dimostrazione è arrivata proprio dai Pasdaran, che ieri, in una prima dichiarazione, avevano detto che l’attacco del 7 ottobre di Hamas contro Israele “è stata una delle operazioni di rappresaglia intraprese dall’asse della resistenza contro i sionisti per il martirio del maggiore generale Soleimani”. Hamas ha poi smentito quanto dichiarato dai Guardiani della rivoluzione sulla correlazione tra l’assalto a Israele e l’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto il 3 gennaio del 2020 a Baghdad per mano Usa.
E lo stesso portavoce dei Pasdaran, Ramazan Sharif, ha fatto marcia indietro dicendo che le frasi iraniane erano state distorte. Tuttavia, se il botta e risposta indica delle divergenze tra Hamas e gli Ayatollah, certifica anche che la guerra-ombra tra Iran e Israele esiste e che Teheran ha interesse a mostrare la propria proiezione di forza in tutto il Medio Oriente. Tanto che lo stesso Sharif ha detto che l’Iran “si riserva il diritto di reagire” all’uccisione di Mousavi “direttamente o con l’aiuto del fronte della resistenza nella regione”. Un fronte che va dai territori palestinesi al Libano, dallo Yemen all’Iraq fino alla Siria e che da tempo è coinvolto in un conflitto più o meno intenso con Israele e con gli Stati Uniti. Washington è impegnata in prima linea per evitare che l’incendio investa tutta la regione. Ieri, il sito Axios ha rivelato che il segretario di Stato Anthony Blinken dovrebbe recarsi in Medio Oriente la prossima settimana per discutere di Gaza con le controparti israeliane, palestinesi e arabe.
E la notizia è giunta dopo il blitz a Washington di Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici. Gli Stati Uniti vogliono capire il piano del premier Benjamin Netanyahu per diminuire l’intensità della guerra (richiesta formulata dall’amministrazione Biden e da tutta la comunità internazionale) e sondare il terreno anche per il dopoguerra nella Striscia. La situazione si fa sempre più difficile sul fronte umanitario, mentre le Tsahal continuano a colpire Hamas e le altre milizie. Ieri mattina le Israel defense forces hanno comunicato di avere colpito 200 obiettivi nelle precedenti 24 ore, mentre alcuni commando sono dentro Khan Younis, roccaforte meridionale di Hamas.
La preoccupazione è rivolta anche ai vari fronti a livello regionale. Dallo Yemen, gli Houthi continuano a mettere a rischio la stabilità del commercio nel Mar Rosso, con le navi e gli aerei Usa impegnati a intercettare droni e missili diretti contro i cargo o anche contro Israele. Mentre in Libano, la tensione con Hezbollah resta alta, e il capo di stato maggiore israeliano, Herzi Halevi ha detto che le forze armate, se necessario, sono “pronte per un possibile attacco”. Per i comandanti israeliani la guerra a Gaza potrebbe durare mesi. Ma la speranza di Biden è che si possa giungere a una definizione del conflitto nell’arco di settimane. Questo anche per le tensioni sempre più evidenti tra i partner Usa della regione. L’ultimo campanello d’allarme è quello fatto risuonare dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha accusato Netanyahu di “non essere diverso da Hitler”. Il premier israeliano ha risposto accusando il Sultano di “genocidio contro i curdi” e di essere “l’ultimo che può fare prediche”. Ma scevro dalla propaganda, il segnale turco è chiaro: la guerra tra Hamas e Israele può innescare crisi in una regione che è ormai una polveriera.
