Non è la prima volta che La Stampa finisce nel mirino della violenza politica. Ieri le Brigate Rosse uccisero il vicedirettore Carlo Casalegno; oggi l’assalto alla redazione è stato compiuto per chiedere la liberazione di Mohamed Shahin, ritenuto dagli investigatori italiani un personaggio “molto carismatico e pericoloso”, guida spirituale e politica della moschea Omar Ibn al-Khattab di via Saluzzo, a Torino. L’imam è considerato radicalizzato: la sua predicazione, secondo la Digos, è stata incentrata, ultimamente, anche sull’assoluzione di Hamas per il pogrom del 7 ottobre e per le sue posizioni apertamente antisemite. Attualmente è trattenuto nel CPR di Caltanissetta in attesa di rimpatrio verso l’Egitto. Nel 2023 gli fu negata la cittadinanza italiana perché ritenuto un soggetto pericoloso. Attorno al caso Shahin si è sviluppata una discussione accesa: sindacati, intellettuali, politici di ogni colore e il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, ne hanno chiesto la difesa. Secondo il presule, Shahin sarebbe “un uomo del dialogo” e l’espulsione lo metterebbe a rischio. Ma un punto è dirimente: prima di giudicare, bisognerebbe leggere le carte della Digos consegnate alla Procura di Torino. La decisione non poggerà su pregiudizi politici o religiosi, ma su un’inchiesta dettagliata.
L’assalto a ‘La Stampa’
La redazione de La Stampa è stata messa a soqquadro dagli antagonisti in modo incomprensibile, considerando che proprio alcuni giornalisti del giornale si sono spesi per la causa palestinese. Qui non esistono le ragioni politiche degli anni Settanta. Allora, sotto la direzione di Arrigo Levi, La Stampa condusse una battaglia frontale contro il terrorismo, e Casalegno, con la sua rubrica, denunciava ogni forma di violenza politica. Perché, dunque, Askatasuna ha assaltato il giornale? In primis, il legame con l’imam Shahin fa perno su un terreno filopalestinese che sfocia inevitabilmente nell’antisemitismo. Non può esservi altra spiegazione. La violenza chiama violenza, e il sangue chiama sangue.
Quando le Brigate Rosse uccisero il vicedirettore Carlo Casalegno
Il 16 novembre 1977 il vicedirettore Carlo Casalegno, partigiano, giornalista e scrittore, fu colpito da quattro proiettili alla testa da un commando guidato da Patrizio Peci e morì dopo tredici giorni di agonia. Era la prima volta che le Brigate Rosse uccidevano un giornalista sotto casa, scegliendo un simbolo della libertà di espressione.
Casalegno, pensatore liberale, curava la rubrica “Il Nostro Stato”, denunciando le contraddizioni della lotta armata e difendendo l’idea di uno Stato severo con i violenti. Peci spiegò che fu condannato per aver “offeso la memoria” di membri della Rote Armee Fraktion morti in carcere. Emblematico il clima dell’epoca: a Torino si tentarono manifestazioni contro il terrorismo e in solidarietà al giornalista ferito, ma la partecipazione fu scarsa. Tra gli operai Fiat non si registrò grande indignazione, e alcuni dichiararono indifferenza per la sorte di Casalegno. Allora, sorprendentemente, tra operai e sinistra “chic” circolava una certa indulgenza verso le Brigate Rosse. Oggi, al di là della sorte dell’imam Shahin, vale un principio semplice: se dai fascicoli emergessero legami con Hamas o con altre organizzazioni terroristiche, lo Stato ha il dovere di espellerlo; se tali legami non ci fossero, resterebbe pienamente tutelato il diritto fondamentale alla libertà di espressione, garantito dall’articolo 21 della Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
I diritti alla libertà di espressione che Francesca Albanese ignora
Gli stessi diritti valgono per i giornalisti de La Stampa e per tutto il giornalismo italiano. Questi diritti li conosce molto bene Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui Territori occupati, ma, di fatto, li ignora: pur condannando l’assalto del gruppo alla sede del quotidiano torinese, aggiunge che la vicenda costituisce un monito ai giornalisti “per tornare a fare il proprio lavoro”. Frase irresponsabile, che mette i giornalisti a rischio. La libertà di stampa vale per Albanese, tant’è che ne dice una al giorno, così come vale per tutti, e bisogna difenderla ora e sempre senza ambiguità. In un Paese libero non esiste alcuna giustificazione politica per l’irruzione in una redazione, né per la protezione acritica di figure su cui pendono indagini per radicalizzazione. La giustizia farà il suo corso sull’imam Shahin, valutando prove e non pressioni. Ma sugli aggressori di Askatasuna il giudizio è già netto: chi attacca i giornalisti attacca la democrazia. E la democrazia, quando viene minacciata, ha il dovere di difendersi.
