La decisione della Banca centrale russa di depositare presso un tribunale di Mosca una causa contro Euroclear è un colpo ben piazzato all’Europa. Purtroppo. L’operazione contro l’istituto finanziario, con sede a Bruxelles e che detiene una quota significativa degli asset dell’ente russo stesso (circa 140 miliardi di euro) è maturata in seguito alle comunicazioni della Commissione Ue riguardo all’eventualità di prendere a prestito i fondi russi per finanziare la resistenza dell’Ucraina. La Banca centrale russa – di fatto il Cremlino, quindi il finanziatore del conflitto – dice che si tratterebbe di una violazione contestabile in sede di tribunali internazionali, cui seguirebbero ritorsioni finanziarie e politiche.

L’azione conferma le preoccupazioni che circolano da settimane nel mondo finanziario europeo. Mettere mano ai soldi russi ci espone a situazioni spiacevoli. Il Belgio, dove oltre a Euroclear hanno sede altre banche, l’ha fatto presente in maniera inequivocabile a Ursula von der Leyen e Antonio Costa. Ha chiesto garanzie condivise con i suoi partner Ue in caso di ritorsioni. Ha perfino minacciato di ricorrere al veto nel Consiglio Ue del prossimo 18 dicembre, che in agenda ha proprio questa brutta faccenda. Finora né le istituzioni comunitarie né i governi nazionali sembra che si siano spaventate degli avvertimenti del premier belga, Bart De Wever. Il commissario Dombrovskis ha derubricato l’azione contro Euroclear come uno dei tanti «procedimenti legali speculativi» che ci si deve attendere da Mosca.

Sempre ieri al meeting del Ppe di Heidelberg, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, auspicava un via libera dalla riunione del 18. Da qui il tentativo del leader dei popolari europei, Manfred Weber, di portare l’Italia a pieno titolo dalla parte tedesca. «Con Giorgia Meloni e Antonio Tajani, Roma rappresenta un partner costruttivo, che vuole trovare soluzioni», diceva il leader del Ppe, con il nostro ministro degli esteri in platea ad ascoltarlo. Da qui il suo commento: «L’Italia è a favore dell’utilizzo dei beni russi». D’altra parte, il capo della Farnesina ricordava la necessità di valutare altre strade. «Abbiamo sempre detto che avevamo qualche riserva, non tanto sulla scelta politica, quanto sulla base giuridica per l’utilizzo dei frozen asset. Potrebbe esserci quindi un altro strumento per finanziare l’Ucraina». C’è davvero? Sì, ma non c’è tempo per applicarlo. Tutti sanno infatti che, senza un accordo prima di fine anno, Kyiv resterà a secco già dal mese prossimo. Prelevare risorse dai debiti pubblici nazionali per inoltrarle all’Ucraina – questo sarebbe il piano B – non è come fare un giroconto. Le difficoltà tecniche e politiche si possono immaginare.

Con le sue ambizioni di riarmo, la Germania resta però impaziente nello svincolare i beni del Cremlino. Merz si attende «una decisione positiva» dal Consiglio e che possa essere raggiunta da una maggioranza qualificata. Ovvero escludendo la putinista Ungheria. Il fatto è che Bruxelles non è Budapest. Una cosa è innalzare un cordon sanitaire contro un membro giovane e periferico della famiglia europea. Un’altra è sottovalutare le obiezioni di un Paese fondatore dell’Unione, protagonista influente del circuito finanziario globale e dove sono ospitate le istituzioni Ue. Detto questo, perché i russi sono usciti ora allo scoperto? Perché sul nemico ci si accanisce quando è ferito. Il National security strategy ha stressato la capacità di reazione dell’Europa. La struttura finanziaria è la sola a tenere. Ma la Bce non può far tutto. L’ok di Francoforte l’altro giorno, all’utilizzo di questi asset, andava stroncato sul nascere. Mosca vuole far vedere a Trump che l’Ue continua a scroccare.

Alla Russia peraltro dice bene. Mentre la Banca centrale russa depositava la sua denuncia, il Financial Times scriveva che alcune banche inglesi avrebbero esposto al premier Starmer le stesse perplessità che circolano in Belgio. Nello specifico caso russo, non c’è paragone tra gli asset inglesi e quelli comunitari: 8 miliardi di sterline (9,12 miliardi di euro), contro 140 miliardi al di qua della Manica. La bilancia dei rischi pende però dalla parte di Londra se la si guarda da una prospettiva globale. La City vale il 10% di tutto il Pil inglese. È nei depositi bancari che si concentra una potenza finanziaria globale, accessibile a tutti, solida e spregiudicata. Nonostante sia all’ombra del democratico Big Ben, per quanto nobile sia la causa ucraina, Starmer non può permettersi di compromettere questa struttura. È la stessa cosa che dicono in Belgio. Solo che Bruxelles è vincolata all’Ue. Londra no.