Si premetta, in chiaro, una cosa: “democrazia è partecipazione”. Se questo assunto è condiviso, allora, il civismo quale forma di sensibilità verso i problemi di una comunità è un sentimento nobile e un alto valore che anima la democrazia stessa. Al pari c’è la politica che è, idealmente, il risultato integrato di quelle sensibilità affinché il potere decisionale sia espressione quanto più fedele e funzionale dell’elemento presupposto: la partecipazione appunto.
Cosa accade però se civismo e politica, nel delicato rapporto umanamente risaputo, non si legano in un cammino comune ed in un’ottica di complementarietà? Accede che se la politica naufraga o latita rischia istericamente di imbattersi nella ricerca di dimensioni apartitiche che colpiscano l’opinione pubblica e rinfreschino, solamente, l’appeal della cabina elettorale. Di contro il civismo può diventare lo strumento di assopimento della politica stessa (quella classicamente intesa dei partiti); il ché sarebbe un paradosso.
Ma c’è la Costituzione italiana che traccia la strada buona a tutti coloro che si approcciano alla politica: – o da espressioni partitiche; – o da neofiti mediante il civismo. E la Carta fondamentale lo fa con due espressioni; l’una complementare all’altra in pieno equilibrio ed essenzialità. L’art. 49, in primis, afferma che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Se leggiamo bene, i Costituenti vollero dire ai cittadini che non si può fare da soli. Occorre aggregarsi. Non competere. Infatti l’etimologia del primo termine deriva dal concetto di “correre insieme”, mentre la parola competere, pur avendo un inquadramento simile al primo, è declinata al concetto del gareggiare in una idea più vicina al dualismo tra vincitori e vinti.
Potremmo dire ancora che il “competere” è più legato alla dimensione della teoria dei giochi (ci si riferisce alla filosofia della politica e del diritto) e che, quindi, risulta più adatto alla circostanza elettorale in sé: più voti ricevi, più seggi hai. Traduzione: più conti e comandi.
Ma questo modo di intendere la partecipazione, specie nelle tornate amministrative, non è esente da rischi perché se la politica (sempre quella classicamente intesa come suddetto) si serve, in un determinato momento storico, di un soggetto terzo (immaginiamo per un attimo un candidato sindaco) non a conoscenza delle questioni e delle problematiche per come evolutesi a ridosso delle elezioni stesse (che, si può facilmente intendere, saranno oggetto di campagna elettorale) il dado è presto che tratto: una certa coalizione può vincere, ma non è detto che abbia la patente precisa per gestire un tracciato amministrativo garante, grossomodo, della tenuta politica elettoralmente data. Valgasi questo assunto anche al contrario e cioè allorquando un civismo, volendosi caratterizzare in purezza assoluta e perciò lontano dai partiti, peschi dalla società c.d. “civile” (come se i politici fossero incivili a prescindere) i quisque de populo.
E si badi bene che nel pescare può andare bene così come può andare male. Malissimo anzi. La ragione è semplice: se una certa coalizione propone un candidato sindaco che soggettivamente abbia maturato competenze per storia personale, ciò non equivale a dire che abbia conoscenze politico-amministrative e qualità psico-umane orientate alla dimensione politica predetta. Questa è una differenza abissale perché la prima è un derivato dell’esperienza personale lontana o, al massimo, tangente le dinamiche amministrative; la seconda, invece, appartiene propriamente al processo di partecipazione del soggetto alla vita politica della comunità (associazioni, think tank, partiti stessi ad esempio). In altre parole sa, quest’ultimo, come si esprime nel tempo e nello spazio la democrazia nell’Istituzione e dell’Istituzione con tutte le sue variabili: maggioranza, opposizione, giunta, uffici, dirigenze, procedimenti, partiti, movimenti, ecc.
Ecco perché non è sufficiente che la politica, quando è in sofferenza, si aiuti con la stampella del civismo (un po’ fine a sé stesso) per raccontare agli elettori di aver cambiato un qualche connotato. Dall’altra faccia della medaglia il civismo, quando forsennatamente alla ricerca di affermazione con la teoria del “tutto da buttare”, non fa altro che auto-delegittimarsi in quanto è proprio quest’ultimo che fino al giorno prima era lì in cabina elettorale a determinare il fallimento che si vuole superare. Il peccato originale sta in una chiave di lettura particolare (a questo punto si spera utile); è la seconda delle espressioni con cui la Costituzione ci riporta sulla strada quando la democrazia stessa ha qualche sbandamento. L’art. 54 afferma che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Ora, se la Repubblica, di tutta evidenza, non vuole che si giochi alle elezioni, ma vuole che si concorra seriamente perché subito dopo si deve amministrare o governare, a seconda del livello istituzionale, non ci si può esimere dal dire che la “disciplina”, in quanto frutto del discernimento (ovvero conoscenza), è un percorso lento e faticoso. Un percorso che si costruisce con l’affiancamento delle diversità. E a questo sono deputati, anzitutto, i partiti perché è a questi che la Costituzione ne affida il relativo compito: candidare chi conosce i problemi è già mezza campagna elettorale. E figuriamoci anche la realizzazione del programma. Un ottavo circa degli ottomila comuni d’Italia andrà prossimamente al voto. Sperando che le cabine elettorali non siano lasciate sole come il civismo esasperato o la politica naufragante.
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