Parlare di fine vita o di eutanasia non è la stessa cosa: quantomeno sul piano spirituale e su quello pratico.
In Italia, sul tema, c’è un grosso problema riguardo al (presunto o meno, discutibile oppure no) “diritto a porre fine a sé stessi”; ciò non può che appartenere anche alla dimensione etica.
Ma c’è un altro campo nel quale il tutto si incastona: quello politico-normativo.
Infatti, la materia della salute è in mano alle Regioni come “competenza legislativa concorrente” rispetto allo Stato centrale. Motivo per cui quest’ultimo (cioè lo Stato centrale), per Costituzione (art. 117), può solo emanare leggi con principi fondamentali.
Tuttavia, sotto altra ottica, si potrebbe opinare che la “morte voluta” non appartenga alla materia sanitaria bensì ad un diritto ancora non esistente nel senso classico: quello alla morte dignitosa.
Ebbene, dal punto di vista spirituale (cioè per chi crede nella vita inalienabile ed irrinunciabile qualunque essa sia) certamente non è assumibile come valore etico quello di considerare la morte come una facoltà disponibile dell’individuo (essendo la vita stessa dono di Dio).
Dal punto di vista relazionale, invece, chi crede nella dimensione sociale basata sulla liberaldemocrazia (quel che siamo in Italia grossomodo) non può che aderire ad un concetto di fondo: il fatto di essere credente religioso (specie cattolico-cristiano) non può diventare strumento di negazione della volontà altrui nel non voler più soffrire quando il patimento è superiore alla speranza di guarigione o di una vita dignitosa.
Se partiamo da questa equazione, allora, c’è da chiarire un aspetto che dopo le recenti decisioni della Corte Costituzionale in merito alla tematica del “come porre fine alla propria esistenza” si fa sempre più largo: disciplinare e regolare un fenomeno è meglio che lasciarlo allo stato normativo brado.
Tale ultimo fenomeno (stato normativo brado) è molto diverso dal non legiferare laddove intervenga, di fatto, una consuetudine implicitamente regolante (come fatto civico) il problema tra le persone. Il motivo è semplice: nel caso del fine vita, della morte medicalmente assistita e dell’eutanasia (che sono tre situazioni nettamente diverse fra loro) ne va di mezzo la sofferenza della persona e il probabile comportamento illecito di chi collabora alla morte del richiedente.
Quindi, il fatto che la materia in questione non sia nelle vocazioni di programma elettorale della maggioranza politica di turno non significa non dovere intervenire rispetto ad un fenomeno che va sempre più accentuandosi nel Paese. Perché la realtà della vita non aspetta un’altra maggioranza o un’altra legislatura. Anche perché il problema rimarrebbe politicamente duplice: fare i conti con l’attuale Costituzione (che attribuisce alle Regioni la competenza normativa in materia di salute) e l’autonomia differenziata che aumenterà ed acuirà il quadro di gestione periferica dell’individuo all’interno del sistema sanitario; il tutto a meno che non si voglia far rientrare la materia in questione in un nuovo nucleo del diritto (a cui neanche avevano pensato i Costituenti) occorrendone intervenire legislativamente per il bene della omogeneità giuridica della Nazione.
Il ché non è un fatto di secondo ordine dal momento che, ad esempio, un giudice al Nord potrebbe autorizzare una modalità di suicidio assistito in una maniera e un giudice al Sud in maniera del tutto opposta benché il codice di procedura sia lo stesso, ma interagente con norme regionalistiche diverse.
Questo miscuglio normativo a più livelli non farebbe che imbrodagliare e imbrigliare il sistema di garanzie costituzionali. E questo non è un fatto suscettibile di valutazione a seconda della maggioranza di governo, ma è un fatto che influenzerebbe il piano burocratico e giudiziario fino a farlo incriccare.
A monte di tutto, ricordiamolo, c’è da tutelare la persona umana: sia essa credente o meno; perché la Costituzione è laica e si rivolge a tutti ed anche a chi ha perso la speranza e non vuole più soffrire.
E se proprio si vuole iniziare da qualcosa di serio si cambi il Titolo V della Costituzione riattribuendo la competenza in materia sanitaria allo Stato centrale (magari dando alle Regioni quella di secondo livello).
Ed ancora, se vogliamo esser un Paese che punta tutto sulla qualità di vita (inclusa la morte prevedibile) della persona umana potremmo introdurre all’articolo 1 la tutela della salute come fondamento della Repubblica stessa.
È etico farlo per come è stata cambiata più volte maldestramente la nostra Carta fondamentale.
“Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te” (citazione di un credente nella speranza).
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