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Il Palazzo di Vetro incrinato: ottant’anni dopo, l’Onu tra crisi e speranza di riforma

Giornalista e Docente - Milano
Il Palazzo di Vetro incrinato: ottant’anni dopo, l’Onu tra crisi e speranza di riforma

A Ottant’anni dalla sua rifondazione (dopo il flop della Società delle Nazioni nel 1919) l’organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) non è mai stato così in crisi e il “vetro” del suo Palazzo a New York non è mai apparso così fragile da rischiare di andare in frantumi.

Anzi sembra davvero incrinarsi la trasparenza di quelle mura che, nelle intenzioni dei padri fondatori, avrebbero dovuto riflettere il sogno di un ordine mondiale condiviso. L’Assemblea Generale che si apre quest’anno non porta soltanto il peso di un compleanno “critico”  ma si colloca in uno dei momenti più oscuri per le tensioni geopolitiche globali. L’ONU, simbolo di un equilibrio che teneva insieme popoli diversi sotto la promessa di un diritto comune, si trova oggi davanti a un bivio: rinnovarsi oppure restare spettatore inerte di un mondo che scivola verso l’anarchia internazionale e l’allargamento di conflitti già in essere. 

Ci fu un tempo in cui quelle stesse Nazioni Unite apparivano davvero come il garante dei principi invalicabili di pace e di rispetto reciproco: per i popoli usciti dall’incubo della guerra, l’ONU non era soltanto un’istituzione, ma la proiezione concreta di un’utopia possibile: un luogo dove le differenze si componevano nella cornice del diritto internazionale condiviso, dove perfino i piccoli Stati potevano parlare da pari alle potenze più grandi invocando un posto nel mondo, eco delle necessità delle loro opinioni pubbliche.  Le sue agenzie (Unicef, Unesco, Fao, Unhcr etc.)  erano la prova che la politica poteva declinarsi in forme di cooperazione e di speranza. Anche le costituzioni democratiche nate dopo le due guerre mondiali, come la nostra, vi si richiamano con un lessico che oggi suona quasi profetico: l’articolo 11 riconosce infatti il valore di quelle limitazioni di sovranità che potessero assicurare pace e giustizia fra le nazioni.

Eppure, l’incanto si è incrinato: oggi l’ONU non è più il soggetto “aggregante” di un tempo, scavalcato dal gioco cinico delle nuove autocrazie, che hanno ricostruito sfere di influenza imponendo ai paesi l’aut-aut: schierarsi o soccombere. Ciò che doveva essere un argine universale al ritorno dell’anarchia internazionale è stato invece eroso da logiche di potenza che hanno fatto a brandelli il diritto; e  Il multilateralismo onusiano, nato per ridurre diffidenze e alimentare una cultura cosmopolita, si è sfilacciato tra veti incrociati e diplomazie parallele, trasformandosi spesso in un rituale stanco più che in uno strumento operativo. I dossier attuali più urgenti — pace, ambiente, diritti fondamentali — si sono trasformati in tavoli infiniti senza decisioni, zavorrati dal diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, un meccanismo che appare oggi come una reliquia della Guerra fredda. La mancata apertura a potenze emergenti come India e Brasile ha aggravato la sensazione di un organismo che non rappresenta più la geografia reale del pianeta. A questo si è aggiunta la globalizzazione economica, che ha indebolito la voce dell’ONU: gli interessi privati e la corruzione politica hanno reso relativi, e spesso subordinati, i temi globali, mentre le urgenze collettive restano senza una guida.

Sorge allora una domanda inevitabile: l’ONU ha fallito nella sua missione? E soprattutto, è ancora possibile riformarla? Il rischio che la risposta sia negativa è concreto, ma impedirlo è un dovere delle democrazie che si dichiarano tali. Bisognerebbe rovesciare la prospettiva e chiedersi piuttosto dove saremmo oggi senza le Nazioni Unite. Basterebbe ricordare che, tra il 1950 e il 2010, le regole del diritto internazionale e le risoluzioni del Palazzo di Vetro hanno permesso di fermare conflitti e di salvare milioni di vite: dalla Corea a Suez, dal Congo a Cipro, fino alla Bosnia, al Kosovo, alla Liberia, al Sudan. La lista è lunga e segna come, pur con limiti e contraddizioni, l’ONU sia stata decisiva nel ridurre l’intensità delle crisi e nel costringere alla parola là dove la tentazione era l’uso delle armi.

Ma la domanda resta sospesa: è possibile immaginare una nuova geopolitica della pace, capace di rinunciare a qualcosa per guadagnare la concordia dei popoli? Il Palazzo di Vetro conserva ancora l’aura di un luogo speciale, uno spazio in cui 193 nazioni siedono allo stesso tavolo, e tuttavia rischia di diventare una cattedrale nel deserto. Le parole del segretario generale Antonio Guterres suonano come un avvertimento: l’unica via d’uscita è il ritorno al dialogo diplomatico e a un lavoro negoziale senza condizioni pregiudiziali, perché senza confronto non resta che il silenzio delle armi. Se solo ci si concentrasse sulle sfide che riguardano tutti — l’ecologia integrale, la lotta alla povertà, la prevenzione delle epidemie — non si sprecherebbero tempo e vite in guerre che, come ricorda Papa Francesco, sono sempre una sconfitta per chi le alimenta.

Per quanto imperfetta, l’ONU rimane ancora l’unico spazio politico universale: è lì che i popoli in fuga trovano protezione, che i rifugiati hanno un diritto riconosciuto, che gli obiettivi di sviluppo sostenibile trovano un respiro collettivo. Gli ottant’anni delle Nazioni Unite dovrebbero diventare un invito pressante a ripensare e trasformare l’organizzazione, affinché torni a essere il cuore pulsante di un ordine internazionale possibile.  La sfida è chiara e non ammette rinvii: o si rinnova l’ONU, restituendole senso e forza, o il multilateralismo resterà soltanto un’illusione del passato, una fotografia ingiallita appesa alle pareti di un palazzo che fu di vetro e che rischia di diventare di carta.

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