Dove sono i miglioramenti qualitativi che avremmo dovuto registrare con la diminuzione del numero dei parlamentari? Forse stanno giocando a nascondino. Ma a giocare con la rappresentabilità popolare in Parlamento si fa un male al Paese. La macchina dei populismi è così: arma il popolo di vacue speranze, che poco dopo getta in pasto all’oblio.
L’inganno dei tagli a quella peculiare spesa pubblica destinata al funzionamento della democrazia, nel suo semplicismo, diviene beffa sdemocratica se a quei tagli seguono – come sono seguite – altre spese per nomine d’oro. L’antipolitica di dieci anni fa, per non essere additata come a-riformista o antiriformista, ha così preferito darsi alla malariforma.
Dopo il taglio del numero dei parlamentari nel 2020, e dopo la connessa disfunzionalizzazione delle garanzie costituzionali di rappresentabilità parlamentare in danno dei cittadini e soprattutto ai danni di chi vive nelle aree periferiche dell’eterogenea Italia, il processo socio-istituzionale di subdemocratizzazione solidifica il proprio magma dolente. I cittadini sono stati illusi, ancora una volta, dal nichilismo della realpolitik nel suo farsi neo-oligarchico surrealismo politico. Dato che il Parlamento viene purtroppo percepito come un duetto di camere composte da notabili cari alle nuove partitocrazie, la gente si è comprensibilmente scoraggiata: ma non dobbiamo arrenderci a quest’idea diffusa. Lavoriamo sulla credibilità e sulla calzabilità della liberaldemocrazia da parte di tutti gli spaccati socioeconomici dell’Italia.
Paradossalmente proprio chi viene additato dalle vulgate qualunquiste e dal politicamente corretto come poltronista, magari per essersi opposto al taglio del numero dei parlamentari (taglio irragionevolmente inspiegato nel quantum), è una delle vittime delle macchine del fango nazionalpopulista. Non sempre, è vero, perché ci sono davvero i poltronisti, purtroppo. Bisogna sempre avere gli occhi affilati dal giusto senso di discernimento, in politica come nella vita in generale.
Il depotenziamento dei meccanismi democratici di rappresentabilità del popolo sovrano in Parlamento – lo stesso popolo che in preda alle retoriche ha votato per confermare la riforma sul taglio numerico dei parlamentari nel settembre 2020 – si è andato ad aggiungere alla sparlamentarizzazione di fatto della produzione normativa italiana, per via del ricorso verticalistico e abusivo alla decretazione d’urgenza, anche nei casi in cui non c’era nemmeno l’ombra di situazioni straordinarie di necessità e di urgenza. Ma andiamo ai numeri dei decreti-legge adottati da ciascun governo, anche al di fuori del periodo pandemico.
Il governo Draghi è quello che ne ha prodotti di più con una media di 3,26 decreti al mese; al secondo posto vi è il secondo governo Conte con una media di 3,18 decreti-legge al mese; seguono il governo Letta con 2,8 decreti-legge al mese e il governo Monti con 2,4 decreti-legge al mese. Tutti gli altri esecutivi hanno dati inferiori ai 2 decreti-legge pubblicati in media ogni mese, e il presente governo pur avendo fatto molto ricorso a questo strumento nei primi mesi della propria azione risulta ancora in corsia e quindi ancora non può essere oggettivamente valutato sul punto.
Il governo attuale, nel promuovere l’idea del c.d. premierato all’italiana, dovrà necessariamente fare i conti con la questione dei pesi e contrappesi, e con la piaga dell’abuso della decretazione d’urgenza. Dovrà valorizzare la maggior democrazia popolare auspicata con il voto diretto del premier, e la maggiore stabilità degli esecutivi, non soltanto nel momento della scelta popolare del Presidente del Consiglio dei ministri ma anche nei meccanismi di rappresentabilità democratica dei cittadini, con una maggior voce di questi nei formanti dialettici dei lavori di riforma. Valorizzare con prudenza i meccanismi di rappresentanza di ogni fragilità del Paese in Parlamento darebbe corpo e voce ai cittadini, non solo sulla scelta inerente al chi mandare al potere, ma anche sui canali istituzionali di dialogo tra il Paese reale e il Presidente nel corso di tutto il quinquennio.
Nel rischio di ritrovarci in una dolente subdemocrazia delle solitudini, soprattutto dopo la riforma che ha amputato il numero dei parlamentari, necessitiamo di nuovi come di antichi padri e madri d’Italia (ciascuno meritocraticamente può esserlo!), senza paternalismi né maternalismi. Ci serve valorizzare il merito delle persone, premiarne il coraggio evolutivo, e invece rischiamo di promuovere solo i signori economicamente più potenti che potendosi permettere costosissime campagne elettorali riescono ad entrare nelle liste dei pochi eleggibili, magari sotto lo scudo di neopartitocrazie illiberali. Ecco a cosa serviva evitare il taglio del numero dei parlamentari, andando contro la semplicistica vulgata incosciente di chi elevava a facili salvatori dei conti pubblici coloro che hanno proposto quel taglio, più per spot elettorali che per altro.
Necessitiamo d’ingegni esemplari, non di basse fiabe etiche a rime obbligate.
La potenziale offerta politica liberalrepubblicana, in questi anni Venti un po’ tradizionali e un po’ new age, è l’embrionale faro garantista della democrazia rappresentativa. In quanto tale il neorepubblicanesimo liberale ha il compito di storicizzare, e neutralizzare, la qualunquizzazione del parlamentarismo. Al contempo, la trasversalità politica di ciò che metodologicamente vorrei fosse il demolibertarismo ha il compito di garantire più democraticità, più decisionismo e più stabilità istituzionale, parlando proprio alle persone in carne ed ossa, seguendo lo spirito della cura delle libertà individuali nel loro farsi diritto all’interno delle comunità popolari.
Intanto sventoli il tricolore italiano, fiero, con la voglia di renderlo ancor più fiero insieme al blu della bandiera europea.
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