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Quando la critica diventa delegittimazione: l’equilibrio fragile tra autonomia e potere nella magistratura italiana

Docente, Giornalista, Scrittore e Saggista
Quando la critica diventa delegittimazione: l’equilibrio fragile tra autonomia e potere nella magistratura italiana

Nel rapporto, spesso irrisolto, tra magistratura e politica, c’è un confine sottile che separa la critica legittima dalla delegittimazione. È un confine che, negli ultimi anni, appare sempre più labile, e che rischia di trasformare il confronto istituzionale in un’arena di sospetti e accuse reciproche. Il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura Tullio Morello ha recentemente richiamato l’attenzione su questo tema cruciale, affermando con chiarezza: «I giudizi sui magistrati sono rischiosi, perché ci delegittimano». Parole semplici, ma dense di significato. In quella frase si racchiude non solo una preoccupazione corporativa, ma una riflessione profonda sul senso stesso dell’indipendenza della giurisdizione e sulla tenuta morale delle istituzioni repubblicane.

La giustizia non può essere terreno di contesa politica

Negli ultimi mesi, il dibattito acceso intorno alle dichiarazioni del ministro Carlo Nordio ha riaperto la questione della separazione delle carriere e del ruolo del Csm. Nordio ha più volte ribadito che l’indipendenza della magistratura deve essere “garantita dall’interno”, ma la sua posizione è stata letta da alcuni come un tentativo di ridefinire i confini del potere giudiziario in rapporto all’esecutivo. In questo scenario, l’intervento di Morello non è un gesto di chiusura, bensì un invito al discernimento. Egli ricorda che “le regole devono favorire l’autonomia interna, altrimenti l’indipendenza può essere messa a rischio”. La magistratura non deve essere intoccabile, ma neppure vulnerabile. La critica è fisiologica in ogni democrazia, ma quando assume toni demolitori, quando diventa quotidiano sospetto, finisce per erodere la fiducia dei cittadini non solo nei giudici, ma nello Stato di diritto. La giustizia, in fondo, è percepita come la linea ultima della tutela dei diritti: se quella linea si spezza, si apre un vuoto di credibilità che nessuna riforma potrà colmare.

Tra autonomia e responsabilità

Il punto centrale del ragionamento di Morello è la consapevolezza che l’indipendenza non è privilegio, ma servizio. Un magistrato indipendente è tale perché risponde alla legge e alla propria coscienza, non a un partito, a un governo o a una corrente interna. Per questo il consigliere richiama la necessità di preservare la libertà interpretativa dei giudici senza scadere nell’anarchia interpretativa: la creatività giuridica, dice, deve sempre restare ancorata alle norme e al contesto. È una posizione di equilibrio, quella che oggi sembra più difficile da mantenere, in un tempo in cui ogni decisione giudiziaria viene scomposta, commentata e giudicata sui social prima ancora che nei tribunali. La magistratura vive una stagione complessa: da un lato la pressione politica, dall’altro la tentazione, interna, di chiudersi in difesa. Morello invita a evitare entrambe le derive: serve autonomia, ma anche responsabilità. Serve una magistratura che sappia dialogare con il Paese, ma senza farsi dettare l’agenda dal clamore mediatico.

La delegittimazione come rischio sistemico

C’è un aspetto che emerge con forza: la delegittimazione non colpisce solo i magistrati, ma le istituzioni nel loro insieme. Quando si diffonde l’idea che i giudici siano faziosi o politicizzati, si incrina la fiducia nella stessa idea di giustizia. E senza fiducia, non c’è più diritto, ma solo forza. Per questo Morello rifiuta l’idea che il confronto tra politica e magistratura debba avvenire per via di slogan o di anatemi. Non serve un lessico di guerra, ma un linguaggio di collaborazione. La sua è una voce che richiama all’ordine costituzionale, non al silenzio: la critica è ammessa, purché sia argomentata, rispettosa, consapevole delle conseguenze che può produrre nella società civile. In una democrazia matura, la reciproca legittimazione tra poteri dello Stato è ciò che ne garantisce la stabilità. Il ministro può proporre riforme, il Csm può esprimere riserve, ma entrambi devono riconoscere il valore del dialogo e la pari dignità dei ruoli.

La sobrietà come virtù istituzionale

Il messaggio più profondo di Tullio Morello è forse questo: la sobrietà è una virtù istituzionale. In un tempo in cui l’urgenza comunicativa sembra prevalere sulla ponderazione, ricordare che la giustizia ha bisogno di silenzio, di studio e di equilibrio è un atto controcorrente. Non servono giudizi sommari sui giudici, ma una riflessione collettiva sul ruolo della giurisdizione in una società che cambia. La politica, se vuole davvero riformare la giustizia, deve farlo con rispetto e con umiltà. La magistratura, se vuole difendere la propria autonomia, deve farlo senza chiudersi nel corporativismo. Solo da questa reciprocità responsabile può nascere una nuova stagione di fiducia, nella quale la critica torni a essere strumento di crescita e non di distruzione. Perché in fondo — come ha ricordato Morello — delegittimare i magistrati significa delegittimare la Repubblica stessa. E la Repubblica, lo sappiamo, vive solo se le sue istituzioni si rispettano a vicenda.

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