L’ultimo film di Luca Guadagnino Queer, già presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia e in questi giorni nelle sale italiane, è un esempio di audacia compositiva e di originale rielaborazione del tema dell’“amore impossibile”.
Nella canicola di Città del Messico, all’inizio degli anni ‘50, l’americano William Lee trascorre giornate oziose a vagabondare, tra una tequila e un mescál, e a rimorchiare uomini con cui passare la notte. Tutto sembra mantenere una fissità e un equilibrio “sensuale e disperato” (direbbe Paolo Conte) finché non irrompe la figura di un giovane ex-marine, espatriato come lui, in una splendida sequenza a ralenti, sulle note di Come As You Are dei Nirvana. Così nel primo dei tre capitoli ha inizio il “discorso amoroso” attorno al quale si sviluppa l’intero film. Un Lee più scomposto e impacciato dell’inizio elemosina le attenzioni di un Eugene frigido e apollineo come una statua, sussurrandogli frasi come: «Se potessi fare a modo mio dormiremmo tutte le notti avvinghiati l’uno all’altro come serpenti a sonagli in letargo».
Con cura maniacale Guadagnino traduce in immagini il romanzo omonimo del 1985 del padre della beat-generation, William Burroughs, che fece la sua comparsa in Italia con il titolo “Checca” e che il regista palermitano sognava di trasporre da molto tempo. Il risultato è un film intimo, frutto di un incrocio di specchi tra le vicende del regista, dell’autore americano – all’epoca dei fatti in fuga in Messico per aver “accidentalmente” sparato a sua moglie – e del personaggio, qui interpretato da uno straordinario Daniel Craig che dismette la maschera dello 007 spietato e virile – fino all’esasperazione – che lo ha reso celebre al grande pubblico.
La .45 sempre in tasca, l’eroina, l’oppio, l’alcol e lo yáge non sono gli unici interessi in comune tra William Lee e William Burroughs: il protagonista è “disintegrato, disperatamente bisognoso di contatto, del tutto insicuro di sé e dei propri obiettivi”, scrive l’autore nell’appendice al romanzo. Prova ne è la tendenza di Lee raccontare storielle per intrattenere gli avventori dei bar che frequenta, perdendosi in aneddoti allucinati che calamitano l’attenzione del lettore/spettatore ma che respingono i suoi interlocutori, che non si piegano agli schemi del suo “discorso”.
Così la droga non è che un anestetico, un filtro d’amore che ottunde i sensi e, quindi, le pene del sentimento non corrisposto. Così la spedizione nella giungla, nel terzo capitolo del film, alla ricerca dell’ayahuasca, pianta dagli effetti allucinogeni e (stando a quanto dice Lee) in grado di stabilire una forma di telepatia tra coloro che ne fanno uso: niente di più desiderabile per il povero amante tossicomane, che si vede aperta la possibilità di conoscere e risolvere, una volta per tutte, un’indagine disperata su se stesso – e su Eugene – che comincia sotto i neon dei bar di Mexico City, si intrica nella foresta dello yáge e si perde nelle visioni deliranti e rivelatorie che costellano la pellicola.
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