Vent’anni fa la riforma costituzionale del Titolo V fece uscire di scena il Mezzogiorno per istituire il potere concorrente delle Regioni e livelli crescenti di autonomia differenziata su base convenzionale (cioè l’Ente chiede allo Stato e con quest’ultimo crea un’intesa).
Aver fatto uscire il Sud dalla dimensione costituzionale poteva esser letto come un fatto di fiducia nei confronti delle zone più depresse del nostro Paese, ma non andrebbe letta in questa maniera. Piuttosto andrebbe letta al contrario: far uscire il Mezzogiorno dalla programmaticità politica verso l’obiettivo dell’eguaglianza e dell’equità è il motivo primario per cui oggi le differenze tra Nord e Sud si sono acuite, intensificate, incancrenite.
Il Sud, certamente, poteva uscire dalla Costituzione, ma prima occorreva metterlo alla pari con il Nord se il modello voluto da inizio secolo ad oggi non è più quello cooperativo tra Regioni (cioè chi ha di più da qualcosa a chi ne ha di meno per andare avanti) bensì quello competitivo tra territori (cioè la differenziazione autonomistica).
Nei fatti, quindi, è cambiato il modello nella realtà politica del Paese e lo conferma l’empirismo. I dati Agenas 2023 sono evidenti ed ormai sotto gli occhi di tutti.
Aver inserito nella Costituzione, vent’anni fa, il principio della essenzialità delle prestazioni che lo Stato deve assicurare su tutto il territorio nazionale, è il punto nevralgico che ha portato oggi il Paese sul binario del Ddl sull’autonomia differenziata.
Dobbiamo chiarire un aspetto. Benché l’idea della riforma sottoposta al parlamento dal Min. Calderoli ne abbia lo spirito (tanto da chiamarsi “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”) il Ddl in questione non c’entra alcunché con i maggior livelli di autonomia richiedibili dalla Regione X in base all’art. 116 della Costituzione riguardo alle materie di competenza dello Stato centrale salvo l’organizzazione della giustizia riguardante i giudici di pace, la normazione sull’istruzione e la tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Stop.
Il problema nasce su un altro binario: quando all’art. 1 del Ddl si vuole legittimare la questione dell’autonomia differenziata al fine di assicurare LEP, c.d. livelli essenziali delle prestazioni, su diritti civili e sociali (uno di questi sarebbe il diritto alla salute appunto).
Quel che è determinante, infatti, sarebbe invertire un pensiero di fondo che appartiene, senza dubbio, all’ideologia iper-federalista (per non dire velatamente secessionista) che ha condizionato il Parlamento negli ultimi trent’anni: tant’è che la riforma sull’autonomia differenziata la partorì il centrosinistra di fine anni novanta per evitare che la Lega nord scombinasse gli equilibri politici dell’epoca (così pensandosi di evitare la vittoria successiva del centrodestra berlusconiano).
Il Ddl sull’autonomia differenziata, piuttosto, nascerebbe per dare applicazione ai LEP da assicurarsi su tutto il territorio nazionale in forza dell’art. 117, co. 2, lett. m), della Costituzione.
Per questo motivo l’approvazione avvenuta in Senato non implica niente di nuovo rispetto a ciò che già si prevede da oltre vent’anni. È qui che il problema, in realtà, diventa tutto genetico sul piano politico-giuridico rispetto a quel parto normativo fatto con la riforma del Titolo V.
La domanda principale è: perché lo Stato italiano dovrebbe assicurare “prestazioni essenziali” invece di pensare a garantire quelle massime ed omogeneamente diffuse su tutto il territorio del Paese in forza di un principio fondamentale della nostra Costituzione (che sarebbe l’art. 3 sulla parità di trattamento dei cittadini)?
Il motivo è semplice: perché si è insinuata la formula “competitiva e non paritaria” tra Regioni. Una sorta di inghippo politico-costituzionale per cui c’è una teoria di fondo: se so che il Sud è arretrato (nell’idea di chi ha pensato la riforma o l’ha spinta), invece di fornire nel tempo strumenti precisi per mettersi alla pari del Nord (e quindi da un certo momento in poi della storia repubblicana potendo competere con il Settentrione) si è scelta la strada speculativamente più comoda per tenere a bada gli animi secessionisti: garantire un minimo sindacale in tutta Italia (i LEP) lasciarlo tutto il resto alla capacità di spesa, di mercato e di attraibilità dei territori e dei servizi sanitari (che, pertanto, da tendere verso l’offerta universale sono diventati, di fatto, feudi di allocazione politica e risorsa elettorale per le dinamiche regionali).
Sempre stando alla idea dei riformatori dell’epoca, l’esempio classico di quel che è accaduto e sta accadendo potrebbe risiedere nella teoria dei giochi di filosofia politica e giuridica (appartiene anche alle strategie militari): si gioca 11 contro 11, ma partiamo con due squadre di categoria diversa cioè una di seria A e l’altra di serie C (per tronare sul binario militaresco è l’esempio Russia-Ucraina dove quest’ultima ha bisogno dell’aiuto internazionale per non soccombere all’iniziativa di aggressione russa).
È ovvio che la squadra di categoria inferiore dovrà fare maggiori sforzi, maggiori miglioramenti, maggiori tattiche, maggiori tecniche, ecc. per portarsi allo stesso livello di competitività dell’altra squadra. Qui subentra un fattore determinante: le risorse economiche e quelle umane.
Posto che il Mezzogiorno di risorse umane ne esporta tantissime (tanto che il Prof. Cassese in un noto libro parla di meridionalizzazione del Nord e della macchina statale sul piano dell’istruzione), stai a vedere che il problema atavico è nelle risorse economiche complessive di cui il Sud non ha potuto disporre dall’Unità d’Italia ad oggi?
Certamente qualcuno potrebbe opinare: ma oggi il Mezzogiorno deve mettersi al passo con i tempi, svegliarsi, iniziare a camminare e fare PIL.
Ispirandosi alla calma riflessiva si dica anche che se l’Italia è nel giro G7 ancora oggi è grazie all’esistenza dell’Ilva (a prescindere dalla sua efficienza o meno) ed allo svuotamento del Sud che esporta giovani, medici, tecnici, professori, ecc.
E questi vanno via per una ragione palese al mondo politico intero: la carenza di opportunità e la condanna multi decennale alla deprivazione culturale di sacche territoriali del Mezzogiorno (voluta o meno è da chiarire) sin dall’Unità d’Italia ad oggi.
Come si crea l’opportunità? Più partite iva che contribuiscono e concorrono a sviluppare PIL e loro defiscalizzazione: questa volta sì differenziata rispetto alle imprese del Nord. Difficile che chi è partito dal secessionismo per poi giungere al federalismo ed ora all’autonomismo differenziato voterebbe un qualcosa del genere.
Lo Stato (centrale) deve sapere bene cosa vuol fare degli imprenditori del Sud: sia quelli esistenti, sia quelli che si formeranno per esserlo o che sentono di poterlo diventare senza emigrare.
Allora, solo a quel punto si potrà dire che un modello di Stato competitivo (al proprio interno) possa avere una sua dignità e funzionalità nell’ottica unitaria del Paese. Ma non siamo gli Stati Uniti d’America per fare un esempio sul tema. Siamo l’Italia e dobbiamo fare i conti con la nostra storia e cultura.
Quindi l’autonomia differenziata avrebbe una sua logica per materie diverse dalla tutela della salute: questa deve appartenere imprescindibilmente alle prerogative primarie ed esclusive dello Stato centrale il quale non deve pensare a garantire livelli essenziali, ma livelli di prestazioni tendenti al massimo possibile.
C’è quindi da ripensare un modello serio di Sanità partendo dalla Costituzione e cambiando quel che vent’anni fa fu stato maldestramente modificato ovverosia il Titolo V.
Alcuni spunti per una nuova Sanità? Ci si prova:
- modifica dell’art. 117 eliminando la tutela della salute dal potere concorrente delle regioni su cui lo Stato centrale, ad oggi, può solo emanare norme con principi fondamentali (ricordiamo tutti l’epoca dei DPCM del periodo Covid);
- eliminazione dei test d’ingresso universitari per gli studi accademici delle materie mediche, infermieristiche, ecc.;
- eliminazione del principio LEP per la materia sanitaria;
- centralizzazione del sistema CUP per renderlo universale ed a scelta dell’utente che non deve sopportare differenza di prezzo e spostamento;
- fondo nazionale per la mobilità sanitaria anche per combattere la disparità tra prezzi e tra territori svantaggiati e avvantaggiati riguardo alle performance;
- prevedere un sistema di armonizzazione dei prezzi tra offerta del servizio pubblico e quello privato atteso che, inevitabilmente, il sistema ospedaliero pubblico non ha la capacità di sopperire da solo a tutta la richiesta sanitaria della popolazione esistente;
- ipotizzare un sistema a sorteggio per gli incarichi di direzione sanitaria al fine di eliminare il processo di politicizzazione delle ASL.
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