Caos Calmo tra assedio e trattative: Israele prepara l’offensiva ma gli Usa non vogliono allargare il conflitto

La guerra tra Israele e Hamas è un sottile gioco di equilibri che si fa sempre più complesso da interpretare e, forse, anche da gestire. Il governo dello Stato ebraico non ha dubbi sul fatto che per sconfiggere Hamas sia necessario un conflitto pesante e definitivo. Il ministro della Difesa Yoav Gallant lo ha descritto ai militari della Marina dicendo che sarà “un attacco letale”, “un attacco combinato da terra, mare e cielo”. E nei giorni scorsi lo ha anche delineato nelle sue singole fasi specificando che servirà tempo e uno sforzo ampio. D’altro canto, però, lo stesso esecutivo ha adottato una tattica attendista, sottoponendo la Striscia di Gaza a pesanti raid, circondandola e chiudendone gli accessi, ma senza avviare nelle prime due settimane l’offensiva via terra.

Una scelta che, come spiegato in questi giorni, può essere stata motivata da ragioni tattiche quanto strategiche. Il terreno dove si combatterà la battaglia decisiva, Gaza, è estremamente complicato e potenzialmente letale per un numero eccessivo di militari israeliani, civili palestinesi e ostaggi. Allo stesso tempo, la pressione internazionale è tutta rivolta a evitare che il conflitto sfugga al controllo delle grandi potenze e alle parti direttamente interessate. Lo ha fatto capire anche la stampa statunitense, che da diversi giorni ha lasciato trapelare diverse indiscrezioni sull’opera politica di Washington. Prima è stato rivelato il dinamismo Usa per frenare piani di attacco su grande scala di Israele contro Hezbollah. Negli stessi giorni è stato spiegato da altre fonti il pressing nei confronti dello stesso Hezbollah, a cui è stato fatto intendere di non lanciare alcun assalto allo Stato ebraico a pena di clamorose ritorsioni. Infine, l’ultima rivelazione è stata quella New York Times, secondo il quale l’amministrazione Biden avrebbe chiesto al governo di Benjamin Netanyahu di ritardare l’invasione. Un elemento che, come noto, per Israele è il perno della guerra iniziata con l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre.

Un attacco del quale sono usciti video e documenti che comproverebbero l’ordine impartito ai miliziani di compiere atrocità contro chiunque incontrassero, e in cui è stata confermata anche la morte della italo-israeliana Liliach Le Havron, moglie di Evitar Kipnis. Sul pressing Usa, è intervenuto anche il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, per chiarire le indiscrezioni e per sottolineare che “le forze di difesa israeliane prendono le proprie decisioni, decidono quello che fanno e quando lo fanno”. Per i media Usa, il lavoro di Washington è legato agli aiuti umanitari per la popolazione di Gaza tramite Rafah e ai negoziati per liberare gli ostaggi. Si sono rincorse, a questo proposito, notizie sullo scambio tra civili e carburante, mentre il lavoro da intermediari dell’Egitto e del Qatar sta continuando a dare i suoi frutti. Questi temi si uniscono però all’altro grande obiettivo di Joe Biden: evitare una guerra allargata. Il grande punto interrogativo libanese è in questo senso esemplare. Le cancellerie occidentali stanno facendo il possibile per parlare a Hezbollah tramite Beirut affinché il segretario generale Hassan Nasrallah non dia l’ordine ai suoi miliziani di unirsi alla guerra di Hamas. La minaccia iraniana però si fa sempre più eloquente. Il vicecomandante dei Pasdaran, Ali Fadavi, ha parlato apertamente dell’ipotesi di colpire la città israeliana di Haifa. Mentre il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha avuto conversazioni telefoniche con il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e con il vertice del Jihad islamico palestinese, Ziad Nakhala, e a entrambi ha confermato il sostegno di Teheran e della Mezzaluna sciita (la galassia di milizie filoiraniane) a quello che ormai è “l’asse della resistenza”.

I razzi che continuano a essere lanciati dal sud del Libano e le risposte delle Idf contro le postazioni sciite nel Paese, da ultimo nell’area delle Fattorie di Shebaa, confermano che la tensione è più che latente. E il timore che l’incendio si allarghi resta molto alto. Per il governo di emergenza questo è un momento decisivo, e il primo a esserne consapevole è proprio Netanyahu. Ieri, il quotidiano Yedioth Ahronoth ha riferito che tre ministri sarebbero pronti a dimettersi come presa di distanze dal premier, che secondo i più recenti sondaggi è ritenuto come il maggiore responsabile politico del buco della sicurezza che ha permesso ad Hamas di uccidere così tanti innocenti nel sud del Paese. “Bibi” cerca l’ossigeno dall’abbraccio dei leader occidentali, che stanno andando in massa a Tel Aviv per sostenere Israele in quella che lo stesso capo del governo ha descritto come la sua “ora più buia”. Oggi in Israele è atteso l’arrivo del presidente francese Emmanuel Macron, mentre è partito per New York il ministro degli Esteri Eli Cohen.

Le pressioni su Netanyahu restano altissime, sia da parte del mondo che da parte dell’opinione pubblica, dei militari e dei partiti radicali. Il quotidiano Haaretz ha riportato la notizia che in questi giorni vi sarebbe stato un pressing delle Idf sul premier per dare il via all’operazione di terra. E non è un caso che ieri sia uscito in serata un comunicato congiunto pubblicato anche sui canali social di Netanyahu con cui il capo del governo, il ministro della Difesa e le forze armate israeliane hanno sottolineato che tra di loro si lavora “in stretta e piena collaborazione” per condurre Israele a “una vittoria decisiva su Hamas”. La parte finale della nota è stata invece una richiesta rivolta media, ai quali è stato domandato “di mostrare responsabilità e di astenersi da notizie false che danneggiano solo la nostra unità e le nostre forze”. L’insolito comunicato ribadisce il momento di tensione anche politico oltre che strategico. E mentre le Idf confermano che sono iniziate le prime incursioni terrestri nella Striscia e continuano a bombardare senza sosta, le truppe lavorano all’offensiva finale.