Carlo Alberto Giusti: “Trump vive il paradosso del nemo profeta in patria”. Con la pace a Gaza il MIT sfida la Casa Bianca

Trump vince nel mondo ma viene contestato in patria. Soprattutto dai senati accademici americani, che gli dichiarano guerra: ne parliamo con il rettore dell’Università Link Campus di Roma, Carlo Alberto Giusti, visiting negli atenei Ivy League, la serie A delle università statunitensi.

Rettore, Lei oggi è a Boston. Che clima c’è intorno a Donald Trump, celebrato nel mondo ma ancora contestato in America? Le università americane ribollono?
«Il primo impatto, arrivando nel campus di Harvard e soprattutto al MIT, è stato il cambio di clima: i Propal sono scomparsi, sostituiti dagli anti-Trump. Come titolano tutti i giornali locali del Nord-Est, la ministra dell’Istruzione McMahon ha lanciato una proposta all’Ivy League che sta incendiando il dibattito: accettare entro il 20 ottobre un pacchetto di nuove regole federali che limitano l’accesso ai fondi per chi invita troppi studenti stranieri e impongono norme “conservative” sulla libertà di espressione. In pratica, lo Stato federale dice: attenzione a non trasformare i campus in focolai antisovversivi, o perderete i miliardi di dollari di finanziamento pubblico. Dopo l’iniziale resistenza di Harvard, che ha poi accettato con un compromesso legale, il MIT ha risposto con durezza: la sua presidente ha definito queste regole “antiamericane”, ribadendo che l’eccellenza nasce dal mescolarsi di culture e saperi. Ma la Casa Bianca non arretra».

Quindi Trump è celebrato fuori dagli Stati Uniti ma contestato dentro?
«Esattamente. All’estero è considerato un leader capace di risultati, un “uomo che mantiene le promesse”, come scrivono molti analisti. In patria, invece, vive una frustrazione enorme: le élite accademiche e intellettuali non gli riconoscono meriti. È un silenzio assordante. I grandi centri di ricerca politica e diplomatica non si chiedono se il suo successo rifletta la forza dell’America, ma si limitano a negargli credito. È il paradosso del nemo profeta in patria».

Dicono ci sia Obama dietro alla contestazione accademica…
«È possibile: Obama ha incoraggiato apertamente i board universitari a non accettare le condizioni della Casa Bianca. È un modo per riaffermare un ruolo politico dopo che il Partito Democratico ha fallito due volte: prima con Kamala Harris, che non ha saputo parlare agli elettori arabo-americani negli Stati industriali come il Michigan, e ora con la causa pro-palestinese, che non ha attecchito. La verità è che i democratici hanno sbagliato bersaglio: la società americana profonda non si riconosce più in quelle battaglie».

Il MIT ha assunto una posizione solitaria?
«Per ora sì. Le altre università – Brown, Dartmouth, Texas – hanno preferito risposte interlocutorie. È probabile che si arrivi a un compromesso: accettare parte delle regole di Trump per non perdere i fondi, evitando però di rinunciare del tutto alla libertà accademica. Del resto, anche negli Stati Uniti la libertà di espressione ha dei limiti: bruciare la bandiera o hackerare siti governativi non sono atti di dissenso, ma reati federali. Si cercherà un equilibrio tra autonomia universitaria e rispetto della legge».

Lei accennava a un’altra trasformazione: finita la stagione delle piazze pro-Gaza, i campus cercano un nuovo collante di protesta?
«È così. Terminata la fase dell’attivismo pro-palestinese, il nuovo collante ideologico è l’opposizione a Trump. È un passaggio fisiologico: l’America universitaria ha bisogno di un “contro” per riconoscersi. Ora il bersaglio è lui, simbolo di un’autorità che sfida il pensiero unico delle élite accademiche. Potrebbe accadere qualcosa di simile anche in Italia».

Ciononostante, le università americane restano un modello mondiale. Perché?
«Perché nonostante le turbolenze restano centri di eccellenza nella ricerca e nella formazione. Hanno il vantaggio del sistema, dell’organizzazione, della reputazione. Ma devono capire che la loro battaglia interna – quella tra élite e popolo – è già stata vinta da Trump, che mantiene oltre il 65% dei consensi. Per l’americano medio, Harvard o il MIT non rappresentano un’identità condivisa. Sono percepiti come mondi lontani, elitari, per i super-ricchi. È lo stesso divario che in Italia separa la Bocconi da un piccolo imprenditore pugliese: se chiudesse, nessuno scenderebbe in piazza».

Nel frattempo cresce la concorrenza globale: Cina, Dubai, Arabia Saudita…
«Negli ultimi quindici anni la concorrenza è esplosa. Le università del Golfo attraggono ricercatori con stipendi altissimi, e le cinesi crescono in ranking e risorse. Ma ciò che manca a questi sistemi è la reputazione, la accountability e la libertà di ricerca che solo il Nord America garantisce. Un brevetto del MIT o dell’Università del Texas pesa ancora molto più di uno di Dubai, perché dietro c’è un’infrastruttura di credibilità. Tuttavia, le università americane dovranno presto adattarsi a un mondo che non guarda più solo a loro come al centro della conoscenza. La sfida è aperta».