Come già chiarito nei numeri delle scorse settimane, noi di PQM continuiamo con assoluta determinazione a surfare sull’onda lunga ed impetuosa del caso Garlasco. Lo facciamo però a modo nostro, e quindi tenendoci ben lontani dalle morbosità mediatiche che mettono in scena ormai, salvo eccezioni davvero rare, opposte tifoserie sempre più rumorose, e soprattutto sempre più approssimative nel giudicare fatti processuali che ad oggi largamente si ignorano, e comunque raramente si hanno titoli e qualità per leggere e comprendere.
Per quanto ci riguarda, cerchiamo invece di fare informazione e chiarezza sulle questioni di sistema che questa vicenda presuppone ed implica: perciò ci siamo occupati o a breve ci occuperemo di appello del Pubblico Ministero dopo una assoluzione, di prova scientifica, di investigazioni difensive e – oggi – del tema cruciale della c.d. regola del BARD: beyond any reasonable doubt. Anche il nostro codice prevede che il giudice possa condannare solo se la colpevolezza è provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. È un principio fissato per scongiurare la più irreparabile delle sconfitte del processo penale: la condanna dell’innocente. Il giudice dunque sa che il giudizio dubitativo è consentito quando si assolve (ecco spiegata l’assoluzione “per insufficienza di prove”, come si diceva una volta), mai quando si condanna. E tuttavia questa fondamentale regola di garanzia dell’ordinato vivere civile si accompagna ad un aggettivo che sembra messo lì per far discutere, piuttosto che per fare chiarezza: “ragionevole”.
Cosa è, dunque, un dubbio ragionevole? O se preferite: cosa sarebbe esattamente un dubbio “irragionevole”? È un gran bel problema, intorno al quale dottrina giuridica, filosofia, psicologia, scienze criminalistiche si tormentano senza sosta. È soprattutto il Giudice – intendiamo quello coscienzioso, consapevole della importanza quasi sacrale del suo ruolo e dei suoi giudizi – quello che più di ogni altro si tormenta (o appunto, dovrebbe tormentarsi): perciò siamo particolarmente lieti di ospitare questa settimana il contributo di un magistrato che presiede la prima sezione della Corte di Assise di Appello di Roma.
Ma anche la pubblica opinione deve imparare una cosa molto importante, che è la premessa necessaria dell’intero ragionamento. La cosa che bisogna imparare a comprendere è che il processo penale è la ricostruzione postuma e dunque indiretta di una vicenda umana accaduta e consumatasi tempo prima. Il crimine è compiuto, perciò capire chi e perché lo ha commesso, e se al momento del fatto concorressero circostanze giustificative della condotta, o attenuanti o aggravanti della pena, implica una ricostruzione inesorabilmente tardiva e necessariamente imprecisa del fatto, perché legata alla capacità del testimone di ricordare senza sovrapposizioni mentali o distorsioni emotive; alla idoneità tecnica della prova scientifica; al possibile ed entro certi limiti inevitabile pregiudizio accusatorio dell’investigatore; e così via discorrendo.
Questa aspettativa catartica, liberatoria che si nutre da sempre intorno al giudizio penale, luogo del riscatto dalle ingiustizie, della punizione dei colpevoli, della soddisfazione del dolore delle parti offese, della rassicurazione della comunità sociale circa la capacità dello Stato di contrastare il pericolo criminale, allontana la percezione di questo fondamentale rito sociale dalla realtà.
Insomma, l’affidamento quasi fideistico che la comunità sociale nutre verso gli esiti del processo penale è totalmente sovradimensionato. Questo spiega bene la morbosità, la visceralità, spesso l’autentica irrazionalità che accompagna la pubblica opinione e gli stessi mezzi di informazione nel seguire e commentare lo svolgersi dei processi penali. Ma è proprio per questa connotazione innata del processo penale, chiarissima ed inevitabile, che occorre vincolare fortemente il giudice al culto rigoroso del dubbio. “Ragionevole”, tuttavia. E quindi? E quindi, buona lettura!
