Ho trovato per caso una copia di una meravigliosa biografia di Cechov, scritta da un suo amico e discepolo, Ivan Bunin: A proposito di Cechov (Adelphi). Vi suggerisco di leggerla, però insieme a qualche racconto di Cechov (edizioni Einaudi o Feltrinelli). Bunin dovette fuggire dalla Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre e passò la vita in esilio a Parigi, vincendo il premio Nobel nel 1933. scrisse racconti, saggi, poesie, narrazioni, da cui traspare sempre una nostalgia per il suo Paese.
Nel 1952 si pubblicano in Unione Sovietica gli epistolari di Cechov e a quel punto Bunin, solo e molto malato, decide di scrivere un suo libro di memorie in cui ritrae magnificamente l’amico, senza tutta quella ingombrante mitologia letteraria che lo aveva ricoperto (o troppo freddo o troppo sentimentale!). Bunin è anche incoraggiato dalla contemporanea pubblicazione di Cechov nella mia vita della scrittrcie Lidija Avilova, dove si parla di un grande amore sotterraneo, nascosto fino alla fine.
Bunin a proposito dei primi grandi racconti di Cechov, scritti a nemmeno trent’anni – “Una storia noiosa”, “In viaggio”, “Melma”… – è colpito dalla precoce, profonda conoscenza della vita e dalla capacità di leggere nell’animo umano. E nota subito che la professione medica gli fu di grande aiuto: «Ci ripeteva spesso, a me e al professor Rossolimo, che la medicina aveva ampliato l’ambito delle sue osservazioni e aveva fornito allo scrittore un sapere della cui importanza poteva capacitarsi solo il medico», aggiungendo una frase di Cechov stesso: «La conoscenza della medicina mi ha preservato da errori in cui è incorso persino Tolstoj, per esempio nella Sonata Kreuzer».
E, prosegue Bunin, «se non fosse stato per la tubercolosi, non l’avrebbe certo abbandonata, la medicina. Amava curare la gente, teneva in gran conto la sua professione e non per nulla sui documenti di Ol’ga Leonardovna Knipper fece scrivere “moglie di un medico”».
Un’altra bella biografia di Cechov, di Irene Nemirovsky, stabilisce una sottile analogia tra il lavoro di medico e la vocazione di autore di racconti, non di romanzi (oltre che l’esperienza fondamentale di cronista proprio dal punto di vista dell’economia di mezzi): «Non si può fare a meno di pensare a Cechov medico; è un’esperienza di medico quella che ci offre, cui si aggiunge l’esperienza del giornalista: delle diagnosi precise, senza debolezza, senza pietà morbosa, ma cariche di una simpatia profonda». L’edizione italiana di A proposito di Cechov di Bunin ha una densa e illuminante prefazione della slavista Claure Hauchard, che sottolinea come per entrambi gli scrittori russi «la Parola è sacra».
Il ritrattista e il soggetto del ritratto vengono qui accostati in un capitolo ideale di “vite parallele”. Se Cechov è essenzialità, riserbo e una certa freddezza, e anche una salute presto cagionevole, il nobile decaduto Benin è passione, tripudio dei sensi, e una salute di ferro. Soprattutto se Bunin prende la vita di petto, gode in modo bulimico dell’essenza del mondo (colori, suoni, odori), Cechov «non può evitare un certo risentimento per quella vita che, in segreto, vorrebbe moralizzare», quasi «un desiderio etico di rimettere in sesto il mondo». Forse anche in ciò lo sentiamo più vicino di tanti altri grandi scrittori. In lui convivono questo ingenuo desiderio di rifare il mondo (che è pieno di ingiustizie), l’impegno quotidiano a prendersi cura degli altri, e anche a far costruire scuole, biblioteche, etc. (che è una modalità dell’impegno “politico”).
Insomma la volontà di perseguire il bene, e insieme un’epica tolstoiana dell’esistenza che tutto misteriosamente ricomprende, il bene e il male, e infine l’idea che proprio nella indifferenza della natura cosmica si nasconde il «pegno della nostra salvezza eterna, del moto perpetuo della vita sulla terra, del nostro perpetuo perfezionarci» (così Gunon, protagonista della “Signora col cagnolino”, di fronte al Mar Nero quieto e al cielo senza fine). E anzi è proprio dalla visione disincantata del nostro destino, del “sonno eterno” cui andiamo incontro, dal riconoscimento dell’assurdo, che può nascere il senso della dignità di esseri umani, come nel Mito di Sisifo di Camus.
