Caro Claudio,
a 17 anni riuscii a farmi espellere da un collegio salesiano in cui avevo trascorso una parte importante della mia vita, dai 10 ai 17 anni. Per motivi futili: un giornaletto di classe con qualche critica al sistema educativo che oggi passerebbe inosservata al più occhiuto dei censori. In collegio ci stavo perché la mia bergamasca famiglia di media borghesia – mio padre era medico – riteneva che quell’istituto potesse darmi un’educazione migliore e tenermi lontano dai pericoli. Tutte due cose, soprattutto la prima, piuttosto illusorie. Ma questo è solo l’antefatto.
Superata la maturità, con qualche problema di spaesamento e con il minimo sforzo, mi si aprì la strada dell’Università e soprattutto quella di Milano.
La Statale di Milano, dove mi iscrissi a filosofia, era un mondo dominato dal disordine più totale. Sai di che cosa parlo. Una manifestazione al giorno, cortei interni, lezioni interrotte, professori messi alla gogna, esami di gruppo, settarismo politico estremo, raid notturni le cui protagoniste erano chiavi inglesi formato maxi. Uno studente fu bocciato ad un esame perché alla domanda su come fosse morto Giovanni Gentile rispose “assassinato dai partigiani fiorentini”. Il professore, un giovane assistente, lo corresse: “Giustiziato, non assassinato. Torni la prossima volta”. La Statale di Milano credo fosse l’unico caso in Italia e nel mondo dove a dominare la scena politica era un movimento, quello fondato da Capanna, che si ispirava allo stalinismo, oltre che al maoismo e agli scritti del leader coreano Kim Il Sung.
Nei cortei si inneggiava a Stalin, a Berija (il capo della polizia stalinista) e alla GPU (il servizio segreto di Stalin). Come una parte della gioventù italiana, colta, relativamente benestante, metropolitana, potesse scegliere di ispirarsi ai peggiori dittatori e a esperienze negatrici di qualsiasi libertà è uno dei misteri che occorrerebbe indagare a fondo. Forse più con gli strumenti della psichiatria che con quelli della politica. Poi in quegli anni aveva preso piede la teoria della “resistenza tradita”: la Resistenza sarebbe stato un fenomeno rivoluzionario che avrebbe portato al socialismo, se non fossero intervenuti gli americani e la divisione del mondo in blocchi, ma soprattutto se non ci fosse stata la complicità del PCI e del revisionista Togliatti contrarlo ad ogni moto rivoluzionario. Che poi Togliatti, tornato dalla Russia Sovietica dove era stato per anni uomo di fiducia di Stalin, sopravvissuto con grande prudenza alle purghe staliniane, in quel periodo agisse di intesa e in gran parte su mandato di Stalin, era una contraddizione da ignorare. Ma questa è un’altra storia su cui magari tornerò.
E comunque questi sono ragionamenti che faccio oggi, ma allora avevo vent’anni, ero piuttosto ignorantello e pieno di contraddizioni. I sentimenti prevalevano sui ragionamenti. Vivevo in una casa che pomposamente chiamavamo “comune”, ma che in realtà era solo un caso di coabitazione con relativa divisione delle spese fra studenti e qualche giovane lavoratore. Tutta gente che non poteva permettersi un appartamento in affitto. Niente di diverso da oggi. Si discuteva di politica da mattina a sera, fortunatamente si faceva anche all’amore – uno dei pochi portati sicuramente positivi della ribellione studentesca – ma le discussioni erano sempre accese, quasi violente, e la cosa da evitare a tutti i costi era che qualche tua ragionevole argomentazione ti esponesse all’insulto più terribile, “revisionista”. Cioè traditore del proletariato, amico dei capitalisti, rinunciatario, controrivoluzionario. In questa situazione sono stato un paio d’anni; qualcuno dei miei compagni di casa cominciò a frequentare compagnie scomode, si iniziava a parlare di lotta armata e anche la tua “virilità” veniva messa alla prova continuamente. Fare parte del servizio d’ordine del Movimento Studentesco, i katanga, ti forniva uno status che ti metteva al di sopra di tutti gli altri. E io ero combattuto fra il machismo dei rivoluzionari, le relative sfide da affrontare, e un’indole, la mia, assai più pacifica e forse persino un po’ femminile.
Ma evidentemente una cosa, i Salesiani che mi avevano espulso, me l’avevano regalata: avevo un angelo custode che vegliava su di me, e mi impedì di prendere una strada sbagliata e finire in vicolo cieco di frustrazione e di rischi. L’angelo custode si palesò nelle sembianze di uno dei miei compagni di appartamento, arrivato da poco nel continuo turbinio di gente che andava e veniva in quella casa. Un operaio, anzi un tecnico, un quadro che lavorava alla Zeiss, una pregevole azienda tedesca specializzata in strumenti ottici di precisione. Sardo di origine, pacato, serio. Adulto. E iscritto al PCI. Praticamente un alieno. Ma anche l’unico fra di noi che lavorasse, il che gli forniva uno scudo inattaccabile. Con garbo mi invitò una volta a un dibattito nella sua sezione. Ci andai con curiosità, ricordo perfettamente che si trattava di una discussione sull’eredità di Gramsci. E scoprii un mondo di gente normale, lontana dalle esagerazioni del clima dell’Università. Avevo incontrato una comunità rassicurante.
Caro Chicco,
con modalità diverse dalle tue, anche la mia marcia di avvicinamento al PCI fu piuttosto tortuosa e confusa. Vivevo a Napoli, in una famiglia che tuttalpiù definirei socialmente piccolo-borghese (vedi come queste definizioni suonano oggi così polverose…), nella quale circolava politica, anche se in forme piuttosto ovattate. Mio padre era stato iscritto al PCI fino al 1964, (l’avrei scoperto quando morì, nel 1991, ritrovando le tessere nei suoi cassetti: mancava quella del 1956, guarda un po’…). Ma nella vita quotidiana preferiva non esporsi: i compagni della sezione Avvocata gli portavano la tessera – immagino – in tipografia. Una volta mi condusse con lui, tenendomi sulle spalle, ad un comizio di Togliatti a piazza Plebiscito, sarà stato nel 1963; in casa gli capitava di sbottare contro un mio zio materno, monarco-fascista. Per il resto, il ricordo politicamente non cancellabile che ho di lui è l’orgoglio con cui parlava dell’impresa del 12 aprile del 1961, quando il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin fu il primo essere umano a volare nello spazio. Per molti anni a seguire, a chiunque gli capitava sottotiro e non manifestava simpatie di sinistra, avrebbe ripetuto pubblicamente il suo mantra incrollabile: “Non vi illudete, non c’è niente da fare, il mondo va a sinistra, la sinistra è il progresso!”. Che, in fondo, è il principio di base che ha trasmesso a me, e mi resta appiccicato a 60 anni di distanza (il progresso, non la sinistra!).
Quindi era nell’ordine delle cose che io dovessi diventare comunista. Salvo che, nei miei turbamenti di adolescente brutto e brufoloso, dovevo trovare qualche motivo di conflitto con la famiglia, e così – leggendo, chissà come mi capitarono tra le mani, i diari di Galeazzo Ciano – intorno ai 14 anni cominciai a definirmi fascista, avviando ridicole polemiche con quel dolce e bonario genitore. Lui non raccoglieva le provocazioni e a mia madre – donna piuttosto timorata di Dio, elettrice democristiana, almeno fino a quando il figlio non diventò “rivoluzionario di professione”, insomma funzionario di partito – diceva sempre: “Lascialo parlare, non dargli retta…”. Ma io insistevo, e al liceo Genovesi, nell’anno di grazia 1968, arrivai da fiero fascista, con i pantaloni all’inglese e con l’insopprimibile acne. L’accoglienza, come puoi immaginare, non fu festosa. Mi presero per il culo dal primo giorno di scuola, per cui – con il primo di una lunga serie di atti di bieco opportunismo che hanno scandito la mia militanza politica, oltre che la mia vita – mi detti malato, o forse mi ammalai davvero, per una settimana. Al ritorno a scuola, i brufoli c’erano ancora, avevo convinto mia madre a farmi indossare i pantaloni lunghi, e per incanto ero diventato comunista.
“Comunismo” però voleva dire di tutto, in quei momenti, e non era certo il PCI ad incarnarne gli ideali. Nel pullulare di gruppetti estremisti che nascevano come funghi, io venivo sballottato di qua e di là. In piazza del Gesù subii un piccolo processo da uno dei leader della scuola, che mi accusò di essere un “bordighiano”, lasciandomi senza parole perché non avevo idea di chi fosse il rigidissimo ingegnere napoletano, fondatore del PCd’I. Da “Servire il popolo” fui cacciato perché mi presentai in sede mangiando un gelato, non facevano per me i vari gruppi marxisti-leninisti, di cui non capivo neppure lontanamente le inafferrabili distinzioni tra “linee rosse” e “linee nere”, quelli di Lotta Continua, che percepivo come più libertari e casinari, non avevano ancora una loro organizzazione. Mentre il fascino vero lo esercitava su di me il “Manifesto”, e non per i pensosi e verbosissimi intellettuali che ne animavano le riunioni, ma per le bellissime ragazze che lo frequentavano.
Così trascorsero i miei anni di militanza politica fino ai 17 anni, quando – essendo diventato un discreto leader del movimento studentesco – mi ritrovai un giorno a gestire un’assemblea nella grande sala “Mario Alicata” della Federazione del PCI, che ci ospitò dopo non ricordo quale baruffa mattutina con i fascisti. Fu allora, era il 1971, la prima volta in cui “vidi” questa cosa grande e importante che avrebbe occupato tanto spazio nella mia vita successiva.
Una palazzina di tre piani, un salone nel seminterrato in grado di ospitare centinaia di persone, e tanti piccoli uffici, con dentro persone dall’aria seriosa che tenevano riunioni o leggevano giornali, nascosti dietro le loro scrivanie da pile di documenti. Così in un battibaleno mi tagliai i capelli, cominciai a frequentare la sezione 1° maggio, e feci la mia prima campagna elettorale, quella del 1972, nella quale ci battemmo senza grande successo contro la svolta a destra del governo Andreotti-Malagodi. Il paradosso assoluto fu che, mentre io mi vestivo di responsabilità e serietà entrando e militando nel Grande Partito, dopo aver girovagato nell’estremismo, mio padre scelse di sostenere Pietro Valpreda, accusato di essere il responsabile della strage di piazza Fontana, e candidato con il Manifesto.
