Giuseppe Mastini, noto come Johnny lo Zingaro o Il Biondino, è protagonista delle cronache nere già dagli anni Sessanta, l’unico ancora in vita che potrebbe conoscere i dettagli dell’oscuro caso della morte di Pasolini. In “Mastini, romanzo di una vita in fugaRenilde Mattioni, dopo svariati incontri in carcere con l’uomo, ha provato a racconta la vita di uno dei criminali più noti e controversi di sempre.

L’autrice attraverso questo libro, edito da Milieu Edizioni per la collana Banditi senza tempo, ci parla anche di riabilitazione sociale nelle carceri e dell’assenza di un programma di reinserimento nella società.

M’hanno dato la lettera…parla tu!”. Questa è la prima cosa che mi ha detto Giuseppe Mastini – conosciuto dalle cronache giornalistiche come Johnny Lo Zingaro – quando, dopo varie ricerche e troppi rifiuti – attraverso l’Associazione Sapori Reclusi -, con la volontà di raccontare la sua storia, sono arrivata a sapere che si trovava nel carcere di Fossano e sono entrata in contatto con lui.

Dopo incontri e colloqui, tra le altre cose, ho capito perché ripeteva quel “parla tu”: i tanti anni di reclusione e isolamento dalla società lo avevano portato a non avere alcuna dimestichezza con il telefono, non capiva i tempi, quando parlare e quando attendere l’intervento dell’altro.

Figlio di giostrai di origine Sinti, Mastini è stato protagonista delle cronache nere già dagli anni Sessanta. Indicato con i fratelli Borsellino e Giuseppe Pelosi – seppure senza comprovati riscontri – come possibile complice dell’omicidio Pasolini, Lo Zingaro è l’unico ancora in vita che potrebbe conoscere i dettagli dell’oscuro caso della morte dello scrittore.

Durante lo stesso anno della morte del famoso poeta si è svolto l’episodio che ha segnato la sua esistenza, condannandolo a una vita criminale: la notte del 28 dicembre 1975, insieme al coetaneo Mauro Giorgio, Mastini rapinò l’autista di tram Vittorio Bigi, ma qualcosa andò storto e l’uomo venne ucciso.

Condannato a quindici anni di carcere, Mastini passerà i primi anni a collezionare fughe. In un secondo momento sembrerà accettare la condizione di reclusione, diventando un esempio di buona condotta, tanto che nel febbraio 1987 beneficerà di un permesso premio di alcuni giorni. Ma una volta tornato a casa, nell’unico posto che lo accoglie, la vita di un tempo e l’ambiente malavitoso tornano a farsi sentire: Lo Zingaro – o il Biondino, come veniva chiamato dai giornali – comincia di nuovo a delinquere e decide, anche in quell’occasione, di non fare rientro in galera dandosi alla latitanza. Si nasconde nella casa di una famiglia di pescatori a passo Oscuro, noti nell’ambiente per offrire rifugio in cambio di denaro a latitanti in fuga. Si innamora di Zaira Pochetti, la figlia ventenne del proprietario di casa. I due, travolti da un profondo sentimento, vestono i panni di Bonnie e Clyde della periferia romana. Complici in svariate rapine, nella notte del 23 marzo 1987, Mastini e la giovane donna vengono fermati da due agenti della polizia e, in seguito a un conflitto a fuoco, si macchiano dell’ennesimo delitto: quello di Michele Giraldi.

Dopo una notte di inseguimenti, l’avventura della coppia terminerà con un nuovo arresto e la condanna. Nel processo del 1989 Giovanni Mastini, a 27 anni, sarà condannato all’ergastolo. Zaira Pochetti non reggerà alla dura vita carceraria e morirà poco dopo di anoressia nonostante le continue richieste della madre, alla luce del suo stato di salute, di riaverla a casa per curarla.

Chi è oggi Johnny lo Zingaro? Me lo chiedo ancora. Il primo incontro tra noi è avvenuto nel dicembre 2016, quando Mastini era riaffiorato alla vita da pochi mesi. In agosto, infatti, gli era stato concesso l’articolo 21, il permesso di lavoro esterno, che il Direttore di una casa circondariale può concedere sulla base della condotta del detenuto e delle relazioni degli psicologi che lo seguono.

Mi sono avvicinata alle sue vicende incuriosita da una vecchia canzone dei Gang che portava il suo nome. Dentro quella storia c’erano le tracce di una vicenda da raccontare – adatta a una sceneggiatura – ma tutte le informazioni erano superficiali e approssimative. Quando ne ho parlato con il protagonista, gli ho spiegato cosa volevo fare, perché volevo raccontare le sue vicende, mi ha detto: “Per me va bene, scriviamo. Quando vieni a trovarmi? Non mi interessano i soldi, basta che poi non sparisci.” Ho capito il significato di quella frase, che sembrava pronunciata da un bambino, molto tempo dopo.

Tutti questi anni d’isolamento dalla società non hanno aiutato Mastini a superare il passato: l’uomo di oggi non è più maturo del quindicenne che nel 1975 commise il primo omicidio.
Si dice che il carcere infantilizzi: la mancanza di un programma di riabilitazione non permette di capire l’errore. Prima di recarmi nel carcere di Fossano per la prima riunione con la Direttrice, con Johnny ci siamo sentiti telefonicamente e ci siamo scritti più volte. Mi aveva minuziosamente descritto la strada da fare per arrivare dalla stazione di Fossano alla casa circondariale, e con un certo orgoglio. Tanto minuziosamente che mi sembrava di conoscerla di prima mano. Molto meno la galera, che resta difficile da descrivere: un luogo polveroso di miseria e di dolore, corazzato di ferro, regole e automatismi.

Mi sono introdotta nella casa Circondariale colma di certezze su cosa fosse giusto e sbagliato e ne sono uscita piena di dubbi. Ho affrontato l’inizio del lavoro facendo domande e pretendendo risposte, come se la sua normalità fosse la mia. Si è rivelato un pessimo approccio: era l’ennesimo interrogatorio sulla sua vita, mi propinava risposte imparate a memoria, falsamente pentito e amareggiato. Ero guidata dall’illusione che la verità di una persona si potesse cogliere attraverso la ricostruzione dei fatti piuttosto che a partire dalla persona stessa.

Per quanto le rocambolesche avventure di fuga siano sempre presenti nei suoi racconti, nei suoi sessant’anni di vita ricoprono un periodo di pochi mesi. La vita di Johnny si è svolta in gran parte in carcere, per circa quarantacinque anni quest’uomo non ha mai avuto occasione di mettersi alla prova, di fare esperienze diverse dalla reclusione e di maturare diventando adulto. Nei vari incontri, dentro e fuori le mura, la mia attenzione si è completamente spostata dall’ossessione di ricostruire i fatti di una storia, al suo protagonista: un uomo che ha passato quasi tutta la sua vita in carcere.

La reclusione, in assenza di strumenti riabilitativi, ti impone un sistema di regole che non viaggia al passo con il mondo esterno. Molti dei detenuti con cui ho parlato hanno esperienze di criminalità radicate in ambito familiare e di fatto la loro carriera da fuorilegge parte dalla prima infanzia. Conoscono solo uno stile di vita e non immaginano in alcun modo che possa essere loro concesso di vivere altrimenti. Non si considerano parte o risorsa di un progetto, poiché non hanno sviluppato l’empatia necessaria a mettersi nei panni dell’altro e a progettare insieme. Osservando questa condizione comune a molti, appare impensabile trovare come unica soluzione un suo irrigidimento, senza creare delle dinamiche di crescita. Pensare il carcere come uno spazio soltanto punitivo annulla nei detenuti il desiderio di un diverso progetto di vita ponendo come unica via la sola conosciuta.