James Douglas Morrison, “Our Leather Lamb”, il nostro agnello di cuoio, come lo definì Patti Smith, il musicista convinto che nella sua anima si fosse trasferita quella dello Sciamano pellerossa che aveva visto morire da bambino sull’autostrada. Jim Morrison nudo sul palco, nel mirino da quel momento di tutta la polizia d’America. In equilibrio sul cornicione, ubriaco, sospeso nel vuoto: un gioco suicida che faceva spesso e che terrorizzò l’amante Nico, una che pure quanto a follia non scherzava.
Nel luglio 1971 la morte di Morrison a Parigi segnò l’avvio del semestre più tragico nella storia del rock’n’roll. Meno di due mesi dopo sarebbe toccata a Jimi Hendrix, anche lui per droga, poi in ottobre a Duane Allman, incidente in motocicletta: i due migliori chitarristi d’America falciati in poco più di un mese. C’era già stata la scomparsa di Janis Joplin, nell’ottobre del ‘70, e negli anni seguenti sarebbero stati uccisi dall’alcol o dalla droga PigPen dei Grateful Dead, Gram Parsons, Mama Cass e in motocicletta, nello stesso punto dove si era schiantato un anno prima Duane, sarebbe morto nel ‘72 Berry Oakley, bassista della Allman Bros Band. Una strage. La sanguinosa vendetta di quel lato oscuro e della controcultura a cui nessuno aveva dato voce più di Jim Morrison e dei Doors.
La band era nata sulla spiaggia di Venice, con due studenti appena usciti dall’Ucla e innamorati di cinema che s’incontrano per caso all’alba di fronte all’oceano: Jim Morrison e il futuro organista dei Doors Ray Manzarek. Volevano fare i registi, parlarono di cinema ma anche di musica. Manzarek aveva già una sua band. Morrison, scriveva poesie e testi di canzoni. Da quell’incontro invece di un film nacque una rock band che era una sfida sin dalla formazione: quattro elementi ma niente basso e quando mai si è ascoltata una rock’n’roll band priva di basso?
Il primo disco dei Doors, inciso nel 1966, uscì nel gennaio successivo: dunque nel 1967, l’anno chiave di quell’epoca, quello dell’“Estate dell’amore”. Frotte di adolescenti si riversavano nella Haight-Ashbury di San Francisco, il cuore della controcultura hippie, immaginando di poter costruire in poche settimane un mondo nuovo.
“If You’re Going to San Francisco Be Sure to Wear Some Flowers in Your Hair”: lo cantavano in tutta la California, in tutti gli States, in tutto l’Occidente. Al festival di Monterey e qualche giorno prima al Fantasy Fair and Magic Mountain Music Festival di Marin County, battesimo della Summer of Love, emergeva quella che due anni dopo si sarebbe identificata addirittura come una nuova nazione, senza radici e senza confini, la Woodstock Nation. I Doors erano parte di quel movimento. Suonavano nei locali di LA già da un anno e mezzo ma l’esordio di massa fu proprio al Festival di Marin County. In primavera avevano tenuto una serie concerti al Matrix, cuore della musica hippie di San Francisco.
Ma i Doors non furono mai davvero e del tutto omogenei alla controcultura. Non ne condividevano l’ingenuità, la solarità posticcia, la superficialità facilona. La loro musica e gli spettacoli che il cantante-sciamano metteva in scena scivolando quasi in un orgiastico stato di trance erano più inquietanti, più ombrosi. Nessuno più esplicitamente di Morrison esprimeva la sessualità sfacciata e oltraggiosa del rock’n’roll, ma senza mai ridurla ai miti dell’epoca sulla naturalezza spontanea del sesso libero e liberato. Il verso di The end, censurato nel disco ma cantato senza omissioni “Father, I Want to Kill You, Mother, I Want to Fuck You”, Papà voglio ammazzarti, mamma voglio scoparti, sarebbe stato impensabile anche per le più complesse e meno infantili tra le band floreali della California hippie. In quel 1967 i Rolling Stones, alla cui musica i Doors si erano ispirati, cantavano Let’s Spend the Night Together ed era già quasi inaudito: passiamo insieme la notte. Nell’interpretazione di Morrison l’hit che lanciò i Doors negli stessi mesi, Light My Fire, faceva sembrare gli Stones liceali pruriginosi.
Nel rock di quell’epoca l’oltraggiosità era un requisito d’ordinanza. Non significa che non fosse sincera ma era pur sempre mediata e adeguata alle esigenze del mercato. Era accettabile. Non quella dei Doors, non quella di Jim Morrison. La sua era una provocazione portata agli estremi, una sfida che metteva nel conto l’eventualità dell’autodistruzione anche prima dell’overdose di Parigi ma la trasformava in erotismo e rivolta. «Elvis ha liberato i nostri corpi. Dylan le nostre menti»: la citazione di Bruce Springsteen è nota. Jim Morrison è stato forse l’unico a coniugare i due messaggi. L’uso del corpo sul palco portava a compimento la rivoluzione iniziata dal bacino rotante di Elvis, rendeva tanto esplicito il contenuto sessuale della sua musica da rendere quasi necessaria quella provocazione che gli costò moltissimo, lo spogliarsi sul palco.
Ma allo stesso tempo i testi complessi, ermetici, spesso torbidi stravolgevano il senso di quella sensualità ostentata, la spogliavano di ogni innocenza. Aprivano la strada alla musica e alla cultura dei decenni successivi. Forse il segreto della longevità di Morrison, della sua popolarità che sfida il tempo e le tendenze dipende proprio da questo: dall’essere stato insieme l’icona del suo tempo ma anche del superamento di quell’epoca dorata.
