Chi era Mubarak, nipotino di Nasser e zio di Ruby

Era un tiranno: poco ma sicuro. Ma la sua tirannia d’Egitto aveva bagliori e larghe aree di laissez-faire. Non era un totalitario come il generale al-Sisi, ma un militare gaudente, moderatamente feroce, ragionevole e crudele. Hosni Mubarak è morto ieri a 91 anni, ma era già politicamente morto nel 2011, quando fu rovesciato dai moti di piazza delle primavere arabe, che poi – Tunisia a parte – finirono tutte in bagni di sangue e regimi ancora più distruttivi. Naturalmente quando si nomina Mubarak, in Italia scatta il riflesso condizionato della “nipote di Mubarak”, al secolo la famosa Ruby che passò come nipote del rais egiziano e per la quale Berlusconi disse di aver chiesto alla questura a Milano un occhio di riguardo, perché “hai visto mai, magari è davvero sua nipote”.

So che manderò in bestia molti lettori e ci sono abituato, ma io lo dissi allora e lo ripeto oggi che trovai allora la versione di Berlusconi assolutamente credibile, visto il clima dei rapporti personali fra i due. Mubarak aveva fama, giustificata, di allevare e apprezzare un esercito vastissimo di nipotine e di sicuro non avrebbe mai avuto nulla da temere dai movimenti “Mee-Too” in casa sua. Era stato il successore di Sadat il quale a sua volta era stato il successore di Nasser, l’uomo che mandò all’inferno l’Occidente aprendo il suo Paese ai sovietici che armarono il suo esercito, costruirono la diga di Assuan e lo indussero a scatenare guerre disastrose contro Israele. Ma Nasser era un uomo legato al Baath arabo, cioè all’ideologia nazional socialista araba così come Assad padre, come Saddam Hussein e tutti i satrapi del Medio Oriente che, durante la Seconda guerra mondiale avevano apertamente parteggiato, insieme al Gran Muftì di Gerusalemme, per Hitler contro il foyer ebraico promesso dagli inglesi ai coloni ebrei con gli accordi di Balfour durante la Prima guerra mondiale.

Mubarak era un giovane brillante capo dell’aviazione egiziana, diventando il numero due del presidente Anwar Sadat, quello che aveva osato l’inosabile – riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele dopo le catastrofiche guerre del 1967 e quella di Yom Kippur del 1973 – pagando questa follia con la propria pelle. Quel giorno del 1981, quando un pugno di congiurati dei Fratelli Musulmani uccise Sadat nel mezzo di una parata militare al Cairo, Hosni era al suo fianco in alta uniforme, suo numero due. Sadat era stato protetto segretamente e vanamente dalla Cia, che per lui aveva creato una sede a Roma in cui si avvicendavano gli uomini che avrebbero dovuto garantire la sua vita, e Mubarak era a sua volta l’uomo della speranza occidentale per il proseguimento del dialogo con Israele. Infatti, ieri Bibi Netanyahu gli rendeva pubblicamente omaggio a nome dello Stato ebraico definendolo un «combattente per la pace».

Mubarak aveva incontrato molte volte i leader israeliani e si era attirato per questo, come il suo predecessore, l’odio senza quartiere dell’islamismo filopalestinese, benché il leader storico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, egiziano di nascita, lo adorasse. Io ebbi per puro caso la sorte di essere l’ultimo giornalista che incontrò Arafat prima che tornasse nel suo compound dove morì misteriosamente forse – come sostenne la moglie – avvelenato con il polonio. Lo incontrai all’Hotel Excelsior di via Veneto e passammo alcune ore per me straordinarie: Arafat era fortemente spaventato, era tremante e mi disse che soltanto Mubarak poteva proteggertelo dai suoi nemici. Mi sembrarono allora le parole di uno che aveva perso la bussola, ma sta di fatto che il leader dell’Olp morì dopo un misterioso periodo di segregazione e che secondo fonti di intelligence dell’epoca, la sua eliminazione era da attribuirsi all’ala radicale egiziana. Non lo sapremo mai, ma sta di fatto che il trentennio di Mubarak fu quello di un Egitto proteso verso un accordo generale con Israele, ed ottenne la restituzione della penisola del Sinai che gli israeliani avevano catturato e su cui si erano insediati migliaia di coloni che furono fatti sloggiare dal governo di Gerusalemme con la forza.


Il Sinai era stato il fronte di guerra del giovane ufficiale dell’aviazione Mubarak, quando le armate israeliane minacciavano di raggiungere il Cairo sotto la guida del geniale Moshe Dayan l’uomo con una benda nera e l’inventore della tattica dei carri armati autosufficienti che agivano nel deserto come vascelli pirata, devastando le linee dell’esercito egiziano ancora formato da reparti rigidi secondo i modelli turco e inglese. Mubarak amava la bella vita, le belle donne, detestava i suoi nemici e restò al potere a colpi di referendum manipolati, sull’onda dei sentimenti popolari occasionali e tumultuosi. Esattamente come quelli che lo abbatterono nel 2011 quando lui reagì alla piazza insorta come ogni altro rais prima e dopo di lui: aprendo il fuoco sugli inermi e falciando le strade con le mitragliatrici. Abbattuto nel 2011 e portato davanti al supremo tribunale militare, le accuse contro di lui caddero ad una ad una col passare del tempo e alla fine furono tutte cancellate dal nuovo regime di al-Sisi, nato a sua volta da una repressione ferocissima con i carri armati contro i Fratelli musulmani che avevano vinto le elezioni e che a loro volta avevano scatenato repressioni devastanti.

Mubarak era stato un grandioso tiranno, ma non un tiranno totalitario come gli attuali governanti. Per lui era importante guidare la politica estera con una duttilità creativa che sfidava l’islamismo sunnita, ma non mosse un dito contro le libertà sostanziali degli egiziani nelle loro vite private. Il suo Egitto era uno Stato di polizia, ma al tempo stesso un Paese liberale in cui la pluralità era garantita e la libertà di comunicazione con gli israeliani era sempre aperta. Aveva sostenuto la politica della striscia di Gaza – una terra egiziana conquistata dagli israeliani nel 1967 – come territorio palestinese autonomo e questa fu esattamente la linea che accolse Ariel Sharon, il soldataccio della passeggiata delle Moschee, quando lasciò che la Striscia diventasse il territorio d’insediamento per Arafat nel 1994. Io andai ad assistere alla fastosa cerimonia con cui Arafat prese possesso di questa terra, ma poiché ero arrivato senza un “Passi” firmato e timbrato dagli uffici dell’Olp, fui subito arrestato dalle milizie e messo in quarantena in una rovente capanna dal tetto di alluminio davanti al deserto e fui costretto a guardare la cerimonia su una televisione in bianco nero insieme a uno sceicco caduto in disgrazia.

Ma poi fui ammesso ai festeggiamenti serali e gli egiziani erano i più entusiasti della soluzione che allora sembrava quella più intelligente e produttiva per comporre il conflitto israeliano palestinese. Anche allora centinaia di migliaia di coloni israeliani furono costretti ad andarsene da Gaza affinché il piano costruito con pazienza al Cairo e a Gerusalemme andasse in porto. Questa era la grandezza di Mubarak: aveva combattuto con onore e come un eroe di guerra contro Israele nel 1973. Aveva capito che mai alcuna coalizione araba, anche se fortemente sostenuta dall’Unione Sovietica come era accaduto, avrebbe potuto sconfiggere Israele perché quel Paese aveva non soltanto la potenza militare delle armi più moderne, ma una motivazione e una rapidità d’azione nell’affrontare le crisi, che né l’Egitto né le altre potenze arabe avrebbero mai potuto avere, per quanto numerosi fossero i loro carri armati.

Era dai tempi in cui Mosè impose al Faraone la libertà del suo popolo affinché raggiungesse la sua terra attraverso le acque del Maro Rosso, che il popolo egiziano e quello ebraico scrivevano insieme il destino delle loro terre. Sadat aveva visto prima e aveva sfidato la morte per il primo passo verso il realismo: Mubarak compì i passi successivi anche attraverso periodi di rapporti pessimi fra il Cairo e Gerusalemme, Mubarak non era buono, non era mite, non era democratico, non era un santo da qualsiasi parte lo si guardasse. Ma aveva il dono del realismo e anche la struttura etica del leader che sa di potersi opporre alle piazze, ma non alla storia. Tiranno sì, totalitario no. La capitale egiziana durante il suo regno era una metropoli deliziosamente caotica, ragionevolmente corrotta, anzi corrottissima, ma piena di eventi, arte, libri, congiure, tangenti, champagne e turisti.


I nemici di Mubarak tentarono di colpire il suo governo colpendo i turisti in crociera sul Nilo ed era l’unica arma che potessero usare, ma la polizia segreta del rais era informata, spietata e segretamente connessa con il Mossad israeliano. Il Cairo di oggi è una metropoli in cui il regime ha deciso di prendere possesso della vita personale dei sudditi per inquisirla, esaminarla, reprimerla. In un certo senso, l’Egitto del dopo Mubarak somiglia un po’ al Cile di Pinochet durante la guerra fredda. Il Paese che aveva guidato l’uomo che ieri si è spento in ospedale dopo quasi dieci anni dalla sua caduta, era invece molto più simile all’Egitto degli inglesi e del re Faruk, un gaudente opportunista cacciato con un colpo di stato militare.

Hosni amava le parate, ma senza eccessi. Aveva un suo senso dell’umorismo, non sempre innocente. Non conosceva altro diritto se non quello della forza e del realismo, e questa era la sua virtù in un’area geografica che non ha mai conosciuto altre forme di governo che quelle delle maniere forti, delle repressioni nel sangue e delle aperture improvvise. Oggi gli analisti che Al-Jazeera intervistava per raccontare la sua epoca, concordavano: Mubarak fu un tiranno quasi buono, un uomo di Stato, una persona tanto crudele quanto affidabile, moderatamente corrotto, circondato da stuoli di nipoti e più ancora di nipotine appassionate per la danza dei sette veli.