Domenica scorsa l’inviato Rai Giovan Battista Brunori, da due anni corrispondente dal Medio Oriente, ha firmato un reportage che ha fatto deflagrare un vaso di Pandora mediatico e politico. Le immagini trasmesse sono inequivocabili: tonnellate di aiuti umanitari destinate alla popolazione palestinese, stipate da giorni al valico di Karem Shalom, lasciate a marcire sotto un sole implacabile. Secondo quanto documentato, i camion carichi di generi alimentari avevano già superato la frontiera israeliana.
Le accuse dopo il servizio di Brunori
Lo Stato ebraico, infatti, aveva rimosso le restrizioni e consentito il passaggio degli aiuti, eliminando ogni pretesto di ostacolo da parte propria. Eppure, dall’altro lato del confine, il nulla: nessuna organizzazione internazionale, a partire dalle Nazioni Unite, si è presentata a ritirare quei beni fondamentali. Una distanza di pochi chilometri ha separato cibo e acqua dalla popolazione palestinese affamata, senza che nessuno intervenisse.
All’interno dell’enclave, Brunori raccoglie le parole di un portavoce dell’esercito israeliano che, davanti alle telecamere, pone la domanda più semplice quanto scomoda: «Perché le Nazioni Unite non distribuiscono questo cibo?». Quello che dovrebbe essere il cuore della notizia è stato rapidamente messo in ombra dalle reazioni politiche e istituzionali. Il consigliere di amministrazione della Rai, Roberto Natale, ha accusato il servizio di «fare da megafono alla propaganda israeliana». Ancora più grave l’uscita del Movimento 5 Stelle, che ha parlato di «complicità con un criminale di guerra».
Contraddittorio bandito
Questo episodio, oltre a denunciare una gestione scandalosa degli aiuti umanitari, mette a nudo una verità più scomoda: il nostro sistema mediatico è ostaggio di una narrazione polarizzata, dove il contraddittorio non solo è bandito, ma viene criminalizzato. Il reportage di Brunori ha mostrato fatti che avrebbero dovuto indignare e spingere all’azione. Invece ha acceso un fuoco incrociato di accuse e processi mediatici, dove lo spazio per una voce fuori dal coro è stato messo sotto attacco. Difendere la libertà di chi racconta significa difendere la possibilità di un giornalismo libero, che non si piega alle pressioni né alle narrazioni di comodo. Perché senza voci indipendenti, la verità resta ostaggio del potere.
