Nell’ora più buia per lo Stato di Israele – politicamente isolato, atterrito dal vivido ricordo del 7 ottobre, in stato di massima allerta per la guerra a oltranza, e oltraggiato da un ritorno di antisemitismo imbecille (Sergio Mattarella dixit) – d’improvviso si accende una luce che neanche i più ottimisti osservatori internazionali speravano di vedere: il ritorno al tavolo della pace, con una compagine diplomatica che pende smaccatamente in suo favore.

Gerusalemme ha già vinto la campagna militare di Gaza ma sta anche perdendo quella mediatica. Eppure, grazie al soccorso (interessato, ça va sans dire) degli Stati Uniti, che hanno apparecchiato un tavolo negoziale generoso per i molti alleati mediorientali dell’America, Israele oggi può compiere un passo in avanti significativo e lasciarsi alle spalle non soltanto l’eccidio del 7 ottobre, ma – e qui azzardiamo – buona parte del secondo Novecento. È forse una triste coincidenza che i colloqui di pace in corso a Sharm El-Sheik (Egitto) si svolgano esattamente due anni dopo che Hamas ha inflitto agli israeliani un trauma che resterà vivo per i decenni a venire e che ha trascinato entrambi in una guerra che ha come scopo il reciproco annientamento. Oppure questa scelta è voluta, fa anzi parte di una precisa sceneggiatura, scritta molto probabilmente alla Casa Bianca da dei giovani e presuntuosi hillbilly, all’asciutto di storia e di scienze politiche ma che proprio per questo potrebbero far funzionare l’azzardo di voler pacificare il Medio Oriente come se si trattasse della ristrutturazione di un’area dismessa. Per citare Shakespeare, poiché «è folle l’uomo che parla alla luna, ma è stolto chi non le presta ascolto», anche un’idea sulla carta destinata al fallimento potrebbe in quest’epoca avere delle chance di successo.

Hamas accetta di cedere

Spieghiamo meglio. Sia israeliani che palestinesi desiderano che la guerra finisca oggi stesso. La società israeliana è stanca degli orrori del conflitto, e tutti i sondaggi mostrano che la maggioranza vuole un accordo, mentre le comunità ebraiche mondiali sono spaventate all’idea che riemerga un odio antisemita che cova sotto le ceneri della storia. A sua volta, Hamas cerca un modo per sopravvivere, e per tale ragione ha accettato di cedere il proprio potere (e così le armi) ai tecnocrati arabo-musulmani, offrendo loro le metaforiche chiavi di accesso ai tunnel dove gli estremisti hanno forgiato il proprio odio. Il fatto stesso che ai miliziani palestinesi sia stato offerto di avviare un negoziato per una volta credibile, apre all’eventualità che si possa davvero trovare un accordo da cui far partire un piano di pace durevole.

I colloqui

Questi colloqui per Hamas rappresentano la sola e ultima opportunità di contare qualcosa nel complesso quadro geopolitico regionale, perché consentono loro di orientare – non certo decidere – almeno in parte il futuro che attende la popolazione palestinese (vedi la West Bank). Certo, l’ala militare del gruppo resta preda di un desiderio ancestrale, un cupio dissolvi che è parte del concetto stesso di Jihad. Basti ricordare qui le parole e i pensieri del leader militare di Hamas Yhaya Sinwar, che ai mediatori di Egitto e Qatar diceva circa le migliaia di vittime palestinesi: «La loro perdita ha infuso linfa vitale nelle vene della nazione palestinese, spingendola a risorgere e a raggiungere la gloria e l’onore». Sinwar si rallegrava per la guerra, poiché più morti palestinesi avrebbero significato maggiore determinazione nel continuare la lotta (lui stesso è poi stato ucciso in un’operazione dell’Idf nell’enclave palestinese, un anno dopo lo scoppio del conflitto).

Le risorse di Hamas

Per sua fortuna, Hamas dispone anche di una serie di padrini politici, ed è su questa compagine che Donald Trump in persona ha puntato le proprie fiches. E lo ha fatto alla sua maniera quando, attraverso l’inviato speciale per il Medio Oriente Jared Kushner (genero del presidente) ha convinto i protettori di Hamas a investire sugli Accordi di Abramo, che intendono aprire la strada a un «nuovo Medio Oriente». Per rendere credibile il progetto, Kushner ha creato un proprio fondo d’investimento, nel quale sono confluiti il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, quello del Qatar e il fondo personale dell’emiro Mohamed bin Zayed Al Nahyan degli Emirati Arabi Uniti.

I ricchi giacimenti di gas offshore

Oggi Hamas definisce questi accordi di natura diplomatica come «un fallimento arabo senza precedenti», e ancor peggio vede come un patto luciferino l’idea di accreditare Tony Blair quale proconsole della regione per il passaggio di consegne, anche in ragione del fatto che l’ex premier britannico siede nel board di British Petroleum e che, pertanto, i suoi interessi non sono esattamente politici. In realtà, per l’America, il Regno Unito, Israele e le monarchie del Golfo ricostruire l’intera fascia costiera che da Suez raggiunge la Turchia, mettendo le mani sui ricchi giacimenti di gas offshore antistanti le acque israelo-palestinesi, è «l’affare del secolo». Ed è questa la vera ragione per cui stavolta potrebbe scoppiare la pace. Realpolitik o, per dirla con Donald Trump, Business as usual.

Luciano Tirinnanzi

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