Finalmente un libro che – in modo sobrio, preciso. Ragionevole – dice qualcosa di sinistra! Ne suggerisco la lettura a tutti quanti siano interessati all’argomento, e poi ai Letta, Conte, Calenda…: Com’è successo, di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone (Fandango). L’incipit è retoricamente molto efficace.
Si chiedono appunto “come è successo che”, e poi aggiungono vari interrogativi, tra cui: com’è successo che “politico” nel sentire comune sia diventato un insulto, che i segretari di partito hanno cominciato ad avere più rilevanza dei programmi politici, che dirsi “né di destra né di sinistra” sia diventato un valore in cui riconoscersi, che il taglio dei parlamentari venga considerato la panacea di tutti i mali, che la sorte di politiche e governi sia decisa con votazioni on line, che si parlasse di taxi del mare per imbarcazioni di fortuna utilizzate dai migranti, che il confronto sia ritenuto un ostacolo e la velocità delle scelte l’orizzonte da perseguire, e soprattutto (almeno per me) che i diritti sociali – ovvero le garanzie che ognuno dovrebbe avere – siano diventati privilegi, appannaggio di pochi (da eliminare non da estendere) e infine la condizione di vulnerabilità una colpa?
Le due autrici, giornaliste con formazioni diverse (una esperta di comunicazione pubblica, l’altra storica e militante nell’associazionismo) decidono di partire dal linguaggio, dalle parole-feticcio di questi anni, dalle espressioni entrate nel lessico politico-mediatico: ribaltoni, inciuci, casta, toghe rosse, quelli con attico a New York, gite in gommone, élite e gufi, fannulloni sul divano…. Ne viene fuori un quadro documentato e fedele della mutazione degli ultimi decenni, e al contempo una commedia umana dai risvolti a volte involontariamente satirici (quasi una autoparodia). Si tratta di una neolingua che semplifica oltremisura la nostra vita pubblica e ne rende impossibile qualsiasi comprensione. Limitiamoci a qualche prelievo, certo parzialissimo, ricordando che spesso dietro le ossessioni si nasconde un bisogno reale, un valore “positivo”, però interamente deformato, stravolto.
La retorica della governabilità porta a svalutare la centralità del parlamento come sede (kelseniana) della sovranità popolare e a far prevalere il governo sull’Assemblea. Mentre il mito della rapidità della decisione conduce al presidenzialismo. A forza di dire “inciucio” si delegittima poi qualsiasi tentativo di intesa politica tra forze contrapposte per cercare regole comuni in occasione di riforme istituzionali. La personalizzazione del sistema politico italiano, da Segni, Berlusconi e Di Pietro alla Bonino, Monti, Tabacci, Calenda… pur nata da una esigenza giusta (la stagione dei sindaci eletti direttamente, il metterci la faccia, etc.) introduce un elemento irrazionale, con il singolo che diventa una figura salvifica. Nel decretare la fine delle ideologie si passa alla primazia delle “scelte concrete” e degli “interessi dei cittadini” come se queste due cose “fossero un unicum indifferenziato volto a favorire crescita e sviluppo”. E non è così, poiché a contare è solo la direzione in cui si orientano le scelte.
L’anomalia di avere avuto Berlusconi, un leader e guida di governo inquisito e condannato, ha sciaguratamente spinto la sinistra (antiberlusconiana) verso un populismo penale che invece si trova all’opposto di qualsiasi sensibilità democratica, naturalmente garantista. Paradigmatico è secondo le autrici il filmato propagandistico del ministro Bonafede “lesivo delle più basilari garanzie costituzionali” quando andò ad assistere al rientro in Italia del terrorista Cesare Battisti in aeroporto, dopo l’arresto a Santa Cruz. A forza di dire che la sicurezza è un bene comune e non va lasciato alla destra, la sinistra ha accettato la retorica dell’invasione dei migranti, puntando su decreti di espulsione (governo Prodi), ordini di allontanamento, sanzioni amministrative contro chi offende il decoro, piuttosto che su politiche sociali più inclusive.
Il mito delle primarie genera l’illusione di una democrazia diretta che sostituisce alla politica come lenta costruzione di comunità, esercizio continuo di partecipazione e senso critico (la democrazia secondo Tocqueville), la partecipazione emotiva attraverso i social, la adesione fideistica al Web, la “sondocrazia”(Rodotà), una politica disintermediaria che è solo umorale. L’attacco alla casta si risolve in una campagna in favore dell’élite, dei tecnici, del “commissario” capace miracolosamente di sbloccare una situazione (dunque: una abdicazione della politica). Mentre il mito – simmetrico – del rispecchiamento (votami perché parlo come te e non perché ne so di più) genera al contrario lo screditamento di ogni competenza.
Va bene i democristiani erano ipocriti ed eccessivamente formali, ma come sappiamo l’ipocrisia è l’omaggio del vizio alla virtù. Da noi è invalsa l’abitudine dell’irrisione becera e della squalifica dell’avversario politico. Ha cominciato Grillo con l’invettiva e la lingua gergale del turpiloquio. Poi da parte della destra si è verificato un abuso di espressioni consunte come “radical chic”, “professoroni” e soprattutto “buonisti” per squalificare la sinistra: dove la critica del buonismo è solo avversione per qualsiasi pratica umanitaria, solidale, inclusiva, e alla fine delegittimazione della bontà stessa. Ma il nucleo forte del ragionamento “di sinistra” delle due autrici riguarda il ridimensionamento dello stato sociale e l’espansione della logica del mercato: è vero, il problema principale resta quello di coniugare efficienza e uguaglianza, però “l’arretramento dello stato nell’assicurare l’universalismo del sistema di sicurezza sociale attraverso una uniforme garanzia dei servizi e delle prestazioni erogate” è esattamente il punto da cui ripartire (universalismo permesso da quella tassazione progressiva che, ahinoi, è rimasta incompiuta).
Anche T. H. Marshall sosteneva che “uno stato democratico non può sottrarsi dal prendersi cura del suo sovrano, e quindi dei suoi cittadini”. Oggi si privatizza tutto, non solo la sanità o gli asili nido ma l’autodifesa attraverso le ronde: “un’altra faccia della rottura dei legami di una comunità solidale, del retrocedere delle istituzioni”. Vi sembra per caso retorico e buonista parlare di “comunità solidale”? Ecco il prendersi cura – da parte dello stato – del suo unico “sovrano” (cioè il popolo e in particolare i poveri, i meno abbienti, gli ultimi) è oggi l’imperativo di ogni sinistra, radicale o moderata, antagonista o riformista, tecnocratica o populista. Però ce ne siamo dimenticati. Com’è successo?
