Cosa fa e perché è importante il Cnel

Principio della maggioranza, esclusività della rappresentanza a livello aziendale, vincolo dei dissenzienti al contratto aziendale: in questi tre concetti si gioca la strategia post-pandemica per il rafforzamento della contrattazione collettiva decentrata. Il tempo per realizzare tutto ciò è ormai giunto? Forse sì. Ma come? Dal 2011 le parti sociali hanno delineato, mediante una serie di protocolli e accordi, questo scenario. Ahinoi, i protocolli sulla rappresentatività sono in una fase applicativa ancora molto embrionale: la misurazione non è ancora consolidata (i dati associativi sono parziali e i dati elettivi non sono ancora del tutto rilevabili) e, con riferimento, al coordinamento tra Ccnl e contratto decentrato, siamo al punto di partenza (forse al 1993). La testimonianza più tragica di questi ultimi giorni su tale situazione è stata data dalla vicenda della contrattazione dei riders e dal relativo intervento ministeriale.

Più recentemente, con una serie di disegni di legge (Catalfo, Nannicini, Gribaudo, Polverini), il legislatore ha iniziato a riflettere sulla linea possibile di evoluzione del tema. L’evoluzione di quella linea legislativa non è pienamente condivisa dalle parti sociali. Le organizzazioni datoriali hanno fatto capire, nelle audizioni parlamentari e nelle interlocuzioni con il governo, che rappresentatività (ddl Gribaudo e ddl Polverini) e salario minimo legale (ddl Catalfo e ddl Nannicini) non sono da mettere all’ordine del giorno perché non sono tra le attuali priorità del Paese. Cgil, Cisl e Uil, seppur con visioni diverse, hanno fatto ben intendere che la cautela su questi temi non è mai troppa. Ma andiamo con ordine, ricostruendo almeno due passaggi che mi sembrano centrali per dirimere alcuni problemi della contrattazione collettiva decentrata in Italia.

C’è, in primo luogo, una maledizione che grava da molto tempo sul livello decentrato della contrattazione collettiva in Italia. Essa era stata già lucidamente segnalata nel 1998 dalla commissione presieduta da Gino Giugni nel lavoro di revisione del protocollo del 1993. La commissione Giugni sosteneva che «la funzione autonoma e specializzata del secondo livello di contrattazione appare molto insoddisfacente», sottolineando che «la mutata situazione della realtà produttiva italiana rende sempre più difficile il mantenimento di una contrattazione di secondo livello che si avvale di un uso insoddisfacente dei parametri oggettivi indicati dal protocollo per quanto attiene alle materie retributive» e che «la struttura industriale italiana necessita di maggiore adattabilità ai processi di globalizzazione, flessibilità che può essere garantita solo da una maggiore variabilità di una quota del salario». Giugni intuiva che «il mutamento delle regole del gioco non è sufficiente a modificare questa tendenza finché gli attori sociali non muteranno la loro cultura contrattuale, rispettando l’impegno a perseguire una politica salariale che utilizzi parametri oggettivi».

In secondo luogo, la pandemia chiede alle relazioni industriali italiane ed europee di ritrovare il senso del tempo. La ciclicità di Covid-19 sta spazzando via il tessuto imprenditoriale italiano più vulnerabile, con conseguenze sull’occupazione che oggi si avvertono solo in modo parziale, dato il contenimento della disoccupazione che deriva dalle integrazioni salariali. La disoccupazione di lungo periodo sarà di difficile gestione. Naspi e reddito di cittadinanza potranno dare risposte efficaci solo se saranno combinati con una contrattazione collettiva decentrata capace di intersecarsi con la ricollocazione dei lavoratori e, dunque, con politiche attive vere e ben strutturate. Ciò, ahimè, come tutti sappiamo, è un gravissimo punto debole del nostro sistema. Qualcuno ha un sospetto (legittimo): se non siamo riusciti a governare le politiche attive in tempi normali, coinvolgendo anche le rappresentanze dei lavoratori, perché dovremmo riuscirci proprio oggi, in tempo di pandemia? Sarà sufficiente l’introduzione, con il decreto rilancio, del fondo nuove competenze? La contrattazione decentrata sarà capace di gestire adeguatamente, nell’ambito del fondo nuove competenze, la rimodulazione dell’orario di lavoro in relazione a una effettiva formazione professionale e alla ricollocazione nel mercato del lavoro?

In questo scenario si inserisce anche il rapporto tra ciclicità pandemica e continuità operativa delle imprese: alle imprese che si conformano ai protocolli sulla sicurezza dovrebbe essere garantita la possibilità di continuare a operare anche in presenza dei (possibili) lockdown locali periodici. Ma c’è un problema: come si verifica l’effettività dei piani di sicurezza concordati a livello aziendale? Bastano le regole fissate nei contratti aziendali e le funzioni assegnate ai comitati paritetici di monitoraggio? Il nostro sistema contrattuale collettivo è sufficientemente sostenuto per svolgere queste funzioni? E, ancora, nel caso in cui si verifichi l’applicazione precisa di tali misure di sicurezza, si mitiga o non si mitiga il rischio di contenzioso (azione di regresso e azione per danno differenziale) che potrebbe nascere dal contagio e dal relativo infortunio? Covid-19 possiede un senso del tempo che non è quello delle relazioni industriali. Covid-19 arriva all’improvviso, sconvolgendo l’economia e distruggendo il lavoro. Non si sa quando va via e se ritorna. Le relazioni industriali hanno fatto del loro meglio per adattarsi a un fenomeno di tale portata. Esse, pur avendo un senso del tempo fatto di liturgie e riti che mal si concilia con un fenomeno come il Covid-19, possono adattarsi più facilmente alla situazione. Se è vero che la pandemia è ciclica, crea crisi simmetriche, con effetti asimmetrici, di breve e lungo periodo, geograficamente differenziati, ci si chiede cosa si aspetti a rilanciare e a sostenere relazioni industriali capaci di intervenire efficacemente sulle singole vicende locali, aziendali o territoriali.

È un problema degli attori (organizzazioni sindacali, datoriali, governo e così via) o un problema degli strumenti che normalmente si usano, tra cui il contratto collettivo e lo sciopero? O è forse un’inefficienza della legge che non sostiene bene l’azione delle organizzazioni più rappresentative? È un problema di coordinamento tra contratto nazionale e contratto decentrato? C’è una crisi di credibilità che colpisce le organizzazioni di rappresentanza? C’è una forma di incompetenza di chi dovrebbe interagire istituzionalmente con le parti sociali? Alla base di queste domande c’è ne una più importante: le organizzazioni sindacali e datoriali intendono “detemporalizzare” la propria azione? In modo più semplice si potrebbe anche dire: sindacato e datori di lavoro intendono costruire (ancora) regole sulla rappresentatività, sulla contrattazione e sullo sciopero, sul primo e sul secondo livello di contrattazione, o, in alternativa, intendono far leva su ciò che c’è, seppur imperfetto, per determinare effetti sociali positivi visibili?

Vediamo cosa c’è che può essere utilizzato da subito per creare effetti sociali positivi. Abbiamo un sistema di coordinamento contrattuale che ha dimostrato, dagli anni ’90 in poi, di potere fare bene. Non sempre è accaduto, ma ci sono esempi che possono fare da apripista. Il contratto nazionale normalmente riesce, con clausole ben scritte e in settori produttivi maturi, a orientare la contrattazione aziendale, la quale è la sede migliore per regolare flessibilità e sicurezza. Abbiamo, però, intere sezioni dei contratti collettivi nazionali da aggiornare (inquadramento professionale, con il relativo collegamento alla scala retributiva, flessibilità dell’orario, poteri datoriali e tecnologia 4.0, sicurezza, procedimenti sindacali e così via) perché altrimenti il coordinamento con il livello contrattuale aziendale-territoriale diviene lettera morta. La delega contrattuale funziona solo se a monte c’è una visione chiara della trasformazione dei processi produttivi e organizzativi che il contratto decentrato coglie e responsabilmente attua. Abbiamo istituzioni paritetiche sulla formazione e sulla previdenza privata che possono funzionare meglio: una riforma sistemica della bilateralità italiana potrebbe aiutare moltissimo.

Abbiamo un meccanismo di rappresentanza unitaria dei lavoratori (Rsu) che viene valorizzato dalla giurisprudenza anche nei casi più difficili, dove minoranze dissenzienti si scontrano con la maggioranza che ha negoziato e sottoscritto il contratto aziendale. Cosa e chi si aspetta per procedere con una generalizzazione di tale modello per la rappresentanza dei lavoratori in azienda? Abbiamo un buon impianto sulle politiche passive e sulle politiche attive: dalla norma si deve passare alla costruzione di azioni innovative aziendali, necessariamente digitali e con un sano coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori in azienda chiamate, come in altri grandi Paesi europei, ad accompagnare i processi di trasformazione aziendale. Lo si faccia presto. In questa prospettiva, il senso della contrattazione decentrata va trovato fuori da essa, cioè nella più generale funzione di interazione con la trasformazione dei processi produttivi e organizzativi, nella riorganizzazione industriale post pandemica, nella crisi occupazionale che affronteremo nei mesi prossimi.

Il Covid-19, da una parte, sta chiedendo alle relazioni industriali di ritrovare il senso del tempo. La velocità di azione non è più un parametro secondario. A ciò si può rispondere con quelle misure appena menzionate. Ma, dall’altra parte, si capisce che il senso del tempo richiede anche istituzioni forti e credibili, dove le parti sociali possano esercitare funzioni consultive, di progettazione normativa, di concertazione e di confronto con chi governa. Tale sede istituzionale è il Cnel. Formulo, perciò, un appello a rivitalizzare completamente la struttura e la logica dell’articolo 99 della Costituzione, da cui si potrebbe ripartire oggi per costruire il futuro delle relazioni industriali italiane.

Il che potrebbe comportare una valorizzazione dell’archivio nazionale dei contratti collettivi, al fine di sconfiggere le pratiche elusive, e potenziare il confronto istituzionale tra organizzazioni più rappresentative, il quale può trasformarsi in contenuti di disegni di legge (tra cui potenzialmente il sostegno alle rappresentanza dei lavoratori in azienda e alla contrattazione decentrata), che sono pensati, voluti e creati dalle medesime organizzazioni e in relazione ai quali il Parlamento non potrebbe fare altro che agevolarne l’attuazione, come è recentemente accaduto con il ddl sul codice unico dei contratti collettivi assorbito dal decreto Semplificazioni.