Il turista alla ricerca solo del pittoresco e del colore locale (quando prima del Covid ce n’erano) o il napoletano che non sia cultore di memorie, perché impegnato nelle mille incombenze quotidiane, che si trovino a passare per Forcella sicuramente ignorano che lì c’è stata una delle nostre tre Giudecche, ossia uno di quei posti dove si concentravano le abitazioni dei cittadini di fede e cultura ebraica. Non era l’unica, perché altri due insediamenti si trovavano nel vicus Judaeorum (attuale vico Limoncelli) e a piazza Portanova, vicinissima alla sede del Dipartimento di Scienze Politiche della Federico II. Non propriamente ghetti, da noi assenti, a differenza di altri luoghi urbani d’Italia.
Dell’imperatore Stupor Mundi si attesta che la sua e, lui morto, l’età angioina furono addirittura fasi filosemite; un clima destinato a mutarsi nel suo contrario già verso gli Ottanta del Duecento, quando subentrarono atteggiamenti di chiusura ed espulsioni da parte dei governanti dell’epoca: un pendolarismo costante nella storia, in cui momenti di integrazione con la restante parte dei residenti si sono sempre alternati ad altri di intolleranza. Nei secoli più vicini, mentre ancora un re borbone, su consiglio di Bernardo Tanucci, espelleva gli ebrei tornati a ripopolare il regno, l’età liberale fu un momento felice.
Dario Ascarelli acquistò nel 1910 l’appartamento di via Cappella Vecchia, affianco all’attuale libreria Feltrinelli, sede della sinagoga, frequentata oggi dai due o trecento fedeli rimasti, dopo periodi in cui il numero era stato anche tre o quattro volte maggiore e prima ancora c’era stata la presenza di un ramo della famiglia Rotschild, come attesta un bel volume dell’Orientale curato da Giancarlo Lacerenza sui 150 di presenza ebraica a Napoli. Un altro della famiglia fu più noto alla città, oltre che alla sua comunità: Giorgio, uomo di azienda e donatore di un orfanotrofio, che del Calcio Napoli (dalla fusione di due squadre preesistenti) fu nel 1926 fondatore, dotandolo perfino, nel quartiere Arenaccia, di uno stadio ligneo destinato alle partite interne, chiamato inizialmente “Vesuvio”, alla sua morte col cognome di chi l’aveva voluto e dal fascismo ribattezzato con la neutrale denominazione di “Partenopeo”.
Ci fu un tempo – ha ricordato di recente la nipote Roberta, gentile e colta germanista – in cui «chiamarsi Ascarelli a Napoli era una condizione dolce. Per la strada non c’era nessuno che ti negava un sorriso, un abbraccio, un invito», aggiungendo con amarezza che «negli anni ‘50 ancora ci volevano bene, un bene di quelli che solo Napoli conosce, fatto di piccoli piaceri, inchini sontuosi, dichiarazioni fantasiose e sincere di amicizia. Con qualche senso di colpa per i beni rapinati, i lavori forzati, le fughe e la salvezza troppo a lungo provvisoria che aveva segnato la storia della mia famiglia». Né ciò basta.
Una lapide nel palazzo del Corso Umberto ricorda il contributo culturale dei professori universitari ebrei soci delle accademie napoletane: gli amministrativisti Federico Cammeo, la cui famiglia fu sterminata nei campi tedeschi mentre lui era morto prima, e Ugo Forti, nel dopoguerra presidente di quella commissione per la rifondazione dell’amministrazione pubblica che affiancò la Costituente, il commercialista Alessandro Graziani, il letterato Ezio Levi d’Ancona, l’economista Achille Loria, il matematico Vito Volterra. Come per Hannukkah, si accenda una candela alla loro memoria.
