Pochi giorni prima di quel 14 maggio del 2000 avevo compiuto 23 anni e la trasferta era il mio regalo. Centocinquanta chilometri in macchina, da Roma a Perugia, passati a elucubrare tutte le possibili alternative e combinazioni. La Lazio era seconda, a 69 punti. La Juventus prima, con 71. Se la Juventus avesse vinto contro il Perugia — già salvo e senza pretese — avrebbe conquistato il 26º scudetto, raddrizzando una stagione avara di soddisfazioni: eliminazione ai quarti di Coppa Italia e un drammatico 4 a 0 col Celta Vigo che ci aveva buttato fuori dalla Coppa Uefa. La Lazio giocava in casa, all’Olimpico, contro una Reggina anch’essa già salva.
Se la Lazio avesse vinto e la Juventus pareggiato, ci sarebbe stato lo spareggio scudetto: gara secca, in campo neutro. Le altre opzioni non erano neppure da considerare. Si andava a Perugia per vincere. Era la Juventus di Del Piero, Zidane, Inzaghi, Davids, Montero, Pessotto, Conte, Ferrara (solo per citarne alcuni). In panchina c’era Ancelotti, che avrebbe fatto la storia del calcio, ma alla guida di altre squadre. Dall’altra parte, un buon Materazzi e Amoruso faceva un po’ paura. Il meglio, però, era in panchina: il mitico Mazzone. Io scaramantico non sono mai stato. Non posso dire che la considerassi fatta, ma non avevo nemmeno tutta questa paura di perdere. Alle 15:00 inizia la partita, con il caldo del sole di maggio. Per le regole di allora, si giocava in contemporanea: sembrava essere una regola sacra. Fischio d’inizio perfetto su tutti i campi. Durante il primo tempo si respirava la tensione. Una Juventus contratta, un Perugia asserragliato in difesa. Del Piero inesistente, Zidane impreciso. Inzaghi si mangia un gol che avrebbe cambiato la partita.
Perugia-Juve, il diluvio, Collina e la gara che andava rinviata
Nel frattempo, dopo venti minuti, il cielo si copre rapidamente e inizia a piovere. Insieme alla pioggia arrivano le brutte notizie dall’Olimpico, dove la Lazio aveva già archiviato la Reggina e i tifosi potevano concentrarsi a gufare la Juventus. La pioggia diventa torrenziale. Sugli spalti cresce la convinzione che la partita non possa più continuare. L’intervallo si prolunga oltre ogni previsione. Molti vanno via. Il campo è completamente allagato. Dopo un po’ esce l’arbitro Collina, con un ombrello nero. Percorre, insieme ai due capitani, il campo in lungo e in largo cercando di far rimbalzare il pallone. Niente da fare: la palla non rimbalza. Sugli spalti, esperti improvvisati di regolamento spiegano che la palla doveva rimbalzare almeno due o tre volte. Ma la verità è che la decisione spettava solo a Collina. Dopo 71 minuti di interruzione, la partita ricomincia. Si parla di questioni di ordine pubblico. Intanto, all’Olimpico, la Lazio ha vinto 3 a 0. Se fosse finita lì, si sarebbe andati allo spareggio scudetto. Un’ipotesi che tutti abbiamo sempre auspicato — ma solo quando non era la nostra squadra a doverlo giocare. Nessuno mi toglierà mai dalla testa che quella partita andasse rinviata. Il campo era impraticabile: una pozzanghera degna dei tornei organizzati dal Rag. Filini. E quella lunga pausa aveva logorato testa e nervi dei giocatori della Juventus.
Col calcio avevo chiuso…
Ore 17:17. Tedesco butta la palla in area. Conte respinge corto. Il pallone arriva a Calori, che calcia un tiro rasoterra che, al rallentatore, si infila alla destra di un Van der Sar immobile. Game over. Da lì in avanti, un assedio sterile. Intanto, invasione di campo dei tifosi del Perugia che si assiepano a bordo campo, la partita diventa ancora più ingiocabile. Ci prova Davids da fuori. Restiamo anche in dieci, con Zambrotta che viene ingiustamente espulso. Mentre tornavo alla mia Panda – una delle poche auto sopravvissute nel parcheggio allagato – giurai, con le lacrime agli occhi, che col calcio avevo chiuso. Per sempre. Non ci avrei mai più messo piede. Le ingiustizie si possono accettare nella vita, ma non nel calcio. Come diceva Arrigo Sacchi: “Il calcio è la cosa più importante tra le cose meno importanti della vita”.
Il fallimento da pare: figlia della Roma, figlio-invasato laziale
E tra le cose più importanti, ci sono i figli. Io, che mi occupo di formazione da venticinque anni, ho due fallimenti pedagogici in casa. Per motivi a me ignoti, mia figlia è della Roma. Mio figlio – Francesco, 9 anni – è un Irriducibile della Lazio. In un mondo di genitori che dicono: “A mio figlio il calcio non interessa proprio”, io mi ritrovo con un invasato che parla di calcio dalla mattina alla sera. Per farmi infrangere quel giuramento, ci volevano proprio i figli. Così, come ormai capita spesso, domenica 25 maggio alle 20:45 ero con lui all’Olimpico per l’ultima di campionato: Lazio – Lecce. Lui: maglietta biancoceleste (quella con cui aveva vinto sempre), cappellino portafortuna (due vittorie all’attivo). Ma senza sciarpetta, perché con quella si era pareggiato. Mentre io non sono scaramantico, mio figlio segue una serie di rituali precisi: dall’abbigliamento al cibo prepartita, fino alla rigorosa scelta del bagno dove fare pipì.
[A.L.]
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“Oggi non mi far vergognare”
Quando andiamo allo stadio, insieme in macchina, papà vuole sempre parlare. Ma a me, prima delle partite, non va. Mi fa un sacco di domande tipo: “E se la Roma pareggia? E se la Juve vince? E se pareggiate?” Io voglio solo pensare alla partita. Lui tifa Juventus e spera che vada in Champions. Io tifo Lazio e spero che ci vada la Lazio. Per farlo, dovevamo vincere e sperare che la Juve perdesse e che la Roma non vincesse. Un casino. Quando andiamo a vedere Lazio–Juve, gli dico prima: “Oggi, non mi far vergognare!” e lui fa il bravo: se segna la Juve non esulta, però sorride con la bocca chiusa. Io lo vedo. Mi ha detto che adesso è 10% della Lazio perché mi vuole bene. Ma poi ha aggiunto che lo è solo quando giochiamo in Coppa. In campionato, massimo 7%. Io gli chiedo sempre la percentuale di quanto è diventato laziale, mentre torniamo a casa. Papà allo stadio non capisce mai chi ha tirato.
“Oggi non succede… ma se succede!”
Mi chiede sempre: “Chi è quello?” oppure “Ha tirato Zaccagni?”, quando invece è Romagnoli! E poi sbaglia tutti i nomi. Il mio giocatore preferito è Zaccagni, lui invece adora Nuno Tavares, ma lo chiama sempre “Nugno”, con la “gn” tipo “gnocchi”. Nel primo tempo stavamo giocando malissimo. Avevamo preso un gol da Coulibaly. Io controllavo i risultati delle altre squadre con l’app. Male. Se restava così, per noi niente Europa League. Vicino a me c’erano gli stessi signori che vediamo sempre allo stadio. Uno di loro ha cercato di farmi ridere dicendo che prima della partita aveva detto: “Oggi non succede… ma se succede!”. Il fratello lo prendevano in giro perché sbagliava sempre i pronostici. Poi, ha raccontato che una volta sola ci ha azzeccato: era il 14 maggio del 2000. Disse quella frase e poi la Lazio vinse lo scudetto. Passò la partita con la radiolina nell’orecchio ad aggiornare i vicini. Nella preistoria non c’erano le app e neppure il var. E forse allora, papà riconosceva i giocatori senza chiedere. Ma papà, che ascoltava con me, aveva una faccia brutta. Io lo so che per lui quel giorno è un ricordo triste. Nel secondo tempo è andata ancora peggio. Lazio fuori dalle Coppe, Juve in Champions, Roma in Europa League. Uffa! Alla fine, tutti nel nostro gruppetto venivano a salutarmi per tirarmi su. Uno ha detto: “Guarda l’aspetto positivo: così, almeno il mercoledì sei libero!”.
Un altro ha detto: “Così vinciamo il campionato come il Napoli”. Ma si capiva che scherzavano. Fuori dallo stadio si sentivano ancora i tifosi del Lecce che cantavano felici, si erano salvati e restavano in serie A. Quest’anno avrò il mio primo abbonamento allo stadio. È il regalo per la mia pagella. Si riparte! Dal settimo posto. Da Zaccagni (che per me dovrebbe essere titolare in Nazionale, l’unico momento in cui io e papà tifiamo la stessa squadra), dal sogno che, un giorno, Ciro Immobile torni e con la speranza che a gennaio compreremo qualcuno forte. A me piacerebbe Bellingham o Kvaratskhelia, anche per sentire come lo pronuncerebbe papà. Il prossimo anno ci saranno tre cose sicure: 1) Criticheremo sempre Lotito perché non compra quelli forti. 2) Papà verrà allo stadio con me, anche se diceva che non ci sarebbe mai più tornato. 3) Mi racconterà altre dieci volte quella storia triste di Perugia, proprio nel giorno in cui la mia Lazio vinse lo scudetto.
[F.L.]
