Sono il peggiore dei tifosi dell’orbe terracqueo. Non solo allevo da sempre questo istinto tribale, fanatico e primordiale, ma lo riscrivo di volta in volta a mio piacimento, sovrapponendolo alle diverse stagioni della mia vita. Una contraddizione assoluta. Il tifo calcistico per definizione è identificazione emotiva, appartenenza, schieramento. Qualcosa che non prevede tradimenti. Bene, io – da quando ho l’età (cosiddetta) della ragione – ho fatto il tifo per quattro squadre, anzi cinque (e quest’ultima è una piccola notizia, per gli amanti del genere). E sempre con tutta la visceralità prevista, fatta di alternanze repentine di gioie e sofferenze, delusioni, ritualità e scaramanzie.

Il primo amore fu il più banale e opportunista di tutti: mi invaghii dei più forti. Avevo sette-otto anni, la domenica pomeriggio mi ficcavo nel lettone di mio padre per ascoltare con lui “Tutto il calcio minuto per minuto”, e cominciai a sentir recitare quel salmo laico che chiunque all’epoca imparava a memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi… così diventai interista (forse anche per fare dispetto proprio a mio padre, che in pubblico si diceva tifoso del Napoli, ma segretamente teneva per il Milan). E si sa che il primo amore non si scorda mai, per cui di quella Inter ricordo tutto: il gioco utilitarista imposto dal mago Herrera, l’invincibilità della difesa, le punizioni a foglia morta di Mariolino Corso, le serpentine di Jair, le geometrie di Luisito Suarez.

Ma, una spanna sopra tutti gli altri, ero folle di Sandrino Mazzola, il mio primo, vero idolo: segaligno e nervoso, capace di dribbling ubriacanti, di tiri maligni, indiscusso eroe del gol più celebrato di quegli anni, segnato al Vasas di Budapest dopo aver saltato tutta la difesa avversaria (almeno così la memoria fallace ricorda l’azione, se provate a rivederla adesso su YouTube forse rimarrete delusi…). Come successe che mollai l’Inter? Mi pare che avvenne verso la fine degli anni’ 60. Prima che la politica mi rapisse con i suoi improbabili sogni, in chiave calcistica cominciai a coltivarne uno casereccio, innamorandomi dell’Internapoli, una squadra del Vomero che dalla serie D avviò una scalata fino alle porte della B, grazie a giocatori come Giorgio Chinaglia, Pinotto Wilson, Giuseppe Massa. Perché nacque l’amore? Per due motivi. Uno pratico: l’Internapoli vendeva abbonamenti per studenti a 500 lire, una politica di marketing non banale. Questo consentiva a me e ai miei amici di avere lo stadio a due passi (era il Collana, non il San Paolo) e di sentirci molto fighi con l’abbonamento in tasca.

L’altro motivo era più ideologico, per così dire. Non mi piaceva per niente l’iconografia stracciona e folkloristica che circondava l’altra squadra cittadina: il ciuccio come simbolo, Achille Lauro e le sue smargiassate, le incivili invasioni di campo (quella in Napoli-Modena del 1963 fu davvero una brutta macchia). E dunque sognavo che in campo calcistico si facesse strada un’altra Napoli, più civile e moderna.
Cosa che non avvenne perché l’Internapoli fallì per un soffio la promozione in serie B, e i suoi gioielli Chinaglia e Wilson si trasferirono nella Capitale. Per la precisione alla Lazio, che quindi, per un po’ di tempo (aprite bene le orecchie, ecco la piccola notizia), diventò la mia squadra del cuore. Ebbi modo finanche di gioire per lo scudetto di Maestrelli del 1973-74, fino a che – in questo caso per fortuna – la politica mi rapì e mi fece trascurare del tutto il pallone. Il mio tifo andò in sonno, per molti anni. Per il rivoluzionario di professione, il calcio era diventato l’oppio dei popoli.

La droga (absit iniuria verbis) che mi riportò al tifo prese il nome di Diego Armando Maradona, anche se nel suo gorgo magico fui trascinato più dall’antipatia per la Juve di Platini, che da un amore sincero per il ciuccio. Fatto sta che per alcuni anni frequentai da abbonato la tribuna laterale B del San Paolo e fu dal mio posto (dire posto è un eufemismo, all’epoca si stava sempre e solo in piedi, grosso modo nei pressi del sediolino cui si aveva pur sempre diritto), che assistetti da vicino alla prima, forse più grande magia, del Pibe de Oro (altro che gol all’Inghilterra…). Sotto una pioggia torrenziale, in una punizione a due in area, con la barriera avversaria schierata a pochi passi, quel dannato ordinò a Pecci di toccargli la palla che, teleguidata dal suo sinistro come un drone, si sollevò da terra, scavalcò i birilli juventini e andò a gonfiare la rete dell’esterrefatto Tacconi. Lì capimmo che il botolo veniva da un altro pianeta. E la mia partecipazione alla messa cantata della domenica divenne costante ed entusiastica, smorzata solo dall’assoluto fastidio per l’identificazione tra le vittorie del Napoli e una presunta “rinascita della città”, chiacchiera futile che si faceva strada anche tra insospettabili intellettuali. Quindi il mio tifo era sempre temperato e sospettoso. Amavo Maradona, non la sociologia urbana da quattro soldi. Mi esaltavo per il suo sinistro che dipingeva il campo, non per il Vesuvio che risorgeva.

Con Maradona mi si chiarì anche, in via definitiva, il carattere strutturalmente malato e perverso del tifo, che si esaltò quando i napoletani, ai mondiali del 1990, sostennero la sua Argentina nella semifinale con l’Italia. Furono loro a sdoganare la natura profonda del mio essere tifoso. Perché anche io, da Mazzola in poi, tendevo ad esaltarmi per i singoli giocatori, non per le squadre. Come dimostra l’ultimo atto (ultimo al momento) del mio tifo peregrinante. Chi poteva sostituire nel mio cuore quella maglia numero 10, da sempre destinata a quelli che danno del tu al pallone? La risposta la trovai nei primi anni ‘90, allo sfiorire della stagione maradoniana, incarnata in un ragazzone romano che, al contrario di Diego, non voleva cambiare il mondo né portava sulle spalle improbabili pesi simbolici. Francesco Totti era la normalità fatta persona. Diceva cose semplici con candore fuori dal campo e in campo vedeva cose che gli altri non vedevano, forse senza rendersene conto. Ed è diventato l’eroe giusto per la città disincantata e cinica che lo ha allevato, e mi ha trascinato, ormai da venti anni, a commuovermi cantando “Roma, Roma, Roma”. Per me Francesco è stato l’amore maturo. Non nutrito dalla passione cieca e furente della gioventù, ma coltivato come un affetto indulgente e rassicurante.

È un rapporto che dura ancora adesso e vive nella carrellata infinita dei suoi gol, che periodicamente scorro su YouTube, esaltandomi per il cucchiaio rifilato all’Inter (meglio del gol alla Sampdoria); in quei pazzeschi cinque minuti finali di Roma-Torino, quando ribalta la partita sotto lo sguardo attonito di Spalletti; e, naturalmente, nel giorno del suo addio, che non posso rivedere senza piangere a catinelle.

E dunque, qual è il senso di questa storia del tifoso anomalo, incostante, traditore che sono? Scriveva Montaigne: “Je ne peins pas l’être. Je peins le passage.” “Non dipingo l’essere, dipingo il passaggio”. In fondo il tifo, per me, è questo: un passaggio, un brivido, un racconto, non un’identità. È un modo per rimanere vivi prendendosi poco sul serio.