Che si erano persi, i napoletani dell’avanti Diego Armando Maradona, mica potevano saperlo. La scritta “non sapete che vi siete persi” pare apparve sul muro del cimitero di Poggioreale dopo la conquista del primo Scudetto, il 10 maggio del 1987. Quei tifosi avevano visto Sivori, Jeppson, forse Sallustro. Maradona no. Che si sono persi i napoletani, gli argentini, i tifosi e appassionati di ogni latitudine e religione arrivati dopo il Boca Juniors dell’inizio anni ’80, il mondiale messicano del’’86 e i due scudetti del Napoli invece lo sanno benissimo. Niente “io mi ricordo”, “io ero in curva B quel giorno”, “guarda là, nei distinti, io e mio padre stavamo là”. E comunque a piangere, a postare sui social, a pregare e dispiacersi per Maradona – scomparso mercoledì 25 novembre, all’improvviso, a 60 anni – c’erano pure 30enni e 20enni, ragazzi perfino più giovani, anche bambini. Una specie di nostalgia al buio, per quello che non si è vissuto; ma è mai possibile?

El Pibe de Oro non è stato soltanto un calciatore: un’icona pop, un luogo condiviso nell’immaginario collettivo. E quindi transgenerazionale. Hanno scritto: è stato come Achille, Ettore, Ulisse; l’atleta come eroe omerico, non una novità. Ma gli aedo, tra corsivi ed editoriali, a questo giro hanno cantato più delle loro giovinezze perdute che della morte di Maradona. L’intimo, l’amico, l’icona, il mito. “La giovinezza finisce quando il tuo calciatore preferito ha meno anni di te”, ha sentenziato lo scrittore spagnolo David Trueba. Lo scrittore napoletano Massimiliano Virgilio ha rivisto tutto, e dopo la notizia: “Non è affatto così, una nuova età inizia quando il tuo supereroe da bambino diventa eterno”.

©Delmati/LapresseArchivio Storicoanni ’80sportcalcioDiego Armando Maradonanella foto: presentazione del calciatore del Napoli Diego Armando Maradona

A chi è nato dopo, il campione, è arrivato principalmente dalle cassette, poi Youtube, dai racconti del padre o del fratello maggiore. La favola con tutta la morale già svolta e strapazzata. Si sono affannati anche in questi giorni: a separare l’uomo dal fenomeno. Il primo inchiodato a ogni sua colpa confessata, supposta o perfino smentita. Quasi mai ricordando che a Villa Fiorito, dove Maradona è nato, era più facile incrociare un criminale che un allenatore. E che aveva 26 anni quando ha vinto il Mondiale, 27 al primo scudetto a Napoli, 30 al secondo. Lui stesso ha raccontato che quando nel 1991 lo arrestarono per possesso e cessione di cocaina, e le televisioni furono convocate per mettere il mostro in prima, il poliziotto che lo accompagnò fuori gli consigliò di coprirsi il viso con il giubbotto. “’Perché dovrei farlo?’ gli ho chiesto ‘non ho ammazzato nessuno’; poi gli ho suggerito: “Mettiti a posto la cravatta, c’è la televisione’. Ha seguito il mio consiglio senza pensarci su”.

Era nato povero ed è diventato cebollita, pelusa, El Pibe de Oro, El Diez, Isso, Dieco, Tiechito, Dios. Non uno che sia bastato, e infatti è diventato lui stesso soprannome: Maradona. Troppa vita per un solo essere umano, per qualsiasi sceneggiatura o romanzo. Una vida tombola, conteneva moltitudini. È stato pure l’eroe, il messia, e hai voglia a slavare via dal pallone la politica e l’antropologia forzate, ma a ricordare il riscatto di Partenope, del Sud, dei napoletani “colerosi e terremotati” grazie al “Dio del calcio” sono stati gli stessi napoletani che negli ultimi giorni lo hanno pianto. Alfonso Fasano ha scritto su Rivista 11 che Napoli non riesce a sfuggire all’assenza e all’attesa di Maradona. Un eroe qui per sempre giovane e bello. La sera del 25 novembre, poco dopo la notizia della morte, a piangere appoggiato al murales enorme ai Quartieri Spagnoli e a parlare come della scomparsa di un parente c’era un ragazzo di vent’anni. Ne sarebbero arrivati a migliaia e pure più giovani, anche al San Paolo.

Chi è nato a partire dalla seconda metà degli anni ’80 in poi si è nutrito dei ricordi degli altri, dei miracoli testimoniati dalle teche Rai, si è andato a cercare dove diavolo sono le isole Malvinas, o Falklands o come si chiamano. E poi ha visto Maradona. Quello imputato a prescindere, in fin di vita nei primi 2000, ballerino a Ballando con le Stelle e showman ne La noche del Diez, che riconosce il figlio Diego Jr dopo 21 anni, allenatore per l’Argentina, stravolto ai Mondiali di Russia, di nuovo in panchina a Dubai, Messico e infine al Gimnasia La Plata, dipendente dall’alcol, sorridente dopo l’operazione al cervello di inizio novembre scorso. Un corpo sempre assediato dai media, più o meno agile o sorridente, più spesso malfermo sulle gambe, gordo, gonfio come nella sua ultima immagine.

Chi ha amato Maradona pur essendo arrivato dopo, è sempre stato cosciente che non avrebbe mai assistito a niente di paragonabile; si è nutrito di testimonianze e di storytelling come con Muhammad Alì, John Lennon e Che Guevara – forse nella società iperconnessa anche i miti sono diventati una questione più intima, personale, individuale. Chi non ha visto ma ha sentito comunque battere il corazón per Maradona, lo ha amato con disinteresse; senza aver mai esultato a un gol, senza aver gridato allo scandalo, senza poter separare l’uomo dal campione, e quindi senza condannarlo e inchiodarlo a ogni sua colpa o fallibilità.

Le immagini di Diego sono negli occhi di ogni gioventù, ha detto a La Repubblica Michel Platini in un improvviso lampo di poesia. E queste gioventù, quelle che non hanno visto o vissuto Diego Armando Maradona, resteranno sempre con il dubbio soffiato dagli editorialisti: “Il suo è stato il calcio più bello”.

Antonio Lamorte

Autore