Caro Chicco,
nella scorsa mail mi hai invitato a parlare della metamorfosi di D’Alema successiva al congresso in cui fece scalpore il suo scontro con Cofferati, allora segretario della CGIL. Provo a riavvolgere il nastro dei ricordi. Nel 1997 D’Alema era segretario del Partito da 2 anni e mezzo, lo aveva guidato nella campagna vittoriosa del 1996, ma dopo il voto non sapeva bene che fare. Il governo Prodi-Veltroni non gli piaceva granché (passò alla storia una sua frase, poi smentita con sdegno, che definiva i due come dei “flaccidi imbroglioni”), e lui stazionava spesso nell’ufficio di Ornella a dilettarsi con i solitari al computer. Quasi per svegliarlo da una certa apatia, che avrebbe potuto generare uscite improvvide, si decise di tenere un congresso che, se ricordo bene, da Statuto non era neppure obbligatorio tenere subito. Ma noi lo volemmo per riaffermare pubblicamente il ruolo decisivo del primo partito della coalizione e del suo segretario. Per questo lo “mediatizzammo” moltissimo.
Il mitteleuropeo Cuperlo scelse una criptica citazione di Rilke (“Il futuro entra in noi molto prima che accada”) come slogan, ci facemmo scrivere un nuovo inno da Morricone, organizzammo il Palasport con il palco al centro per dare fisicamente l’idea di un capo che troneggiava su chiunque… insomma facemmo di tutto per celebrare l’Avvento del Nuovo, Grande Leader. Che, in effetti, in quel periodo era, anche nei sondaggi, il più popolare e stimato dei politici. L’ultimo giorno del congresso fu quello dell’Incoronazione. Avevamo chiesto a Veltroni di introdurre lui l’assemblea, il giovedì, per poterla chiudere il sabato con un intervento di D’Alema, che sarebbe stato, nelle nostre intenzioni, memorabile. E in realtà lo fu. Il capo parlò per un’ora e quaranta, più o meno, e fu un discorso da statista. Affrontò i principali nodi di governo del paese accontentando Prodi e Veltroni, rivolse parole benevole all’opposizione (le tribune delle delegazioni di partito erano stracolme, Berlusconi e Fini lo ascoltavano tra gli invitati con sincera ammirazione), poi a un certo punto prese di petto il sindacato con parole crude: “Non possiamo più difendere l’esistente. Il lavoro non si protegge conservando vecchie regole, ma cambiandole. Bisogna avere il coraggio di dire che non tutto ciò che abbiamo fatto finora è giusto solo perché l’abbiamo fatto noi”.
Così esplose la polemica con Sergio Cofferati. Il leader della Cgil, che sedeva in prima fila, non gradì affatto. D’Alema stava mettendo in discussione la linea tradizionale del sindacato, chiedendo di superare un modello di difesa corporativa e di pensare a un nuovo patto tra impresa e lavoro, tra diritti e competitività. Parlava, in sostanza, di una sinistra riformista, europea, capace di affrontare la globalizzazione senza rifugiarsi nella nostalgia. Finito l’intervento tra le acclamazioni, il congresso finì con le note dell’Internazionale che scalzò l’inno di Morricone, la sala si svuotò, i delegati uscirono, solo un gruppo di dirigenti della CGIL rimase lì e accerchiò D’Alema, avviando con lui un confronto acceso. Fu quasi un processo. Non erano solo obiezioni politiche o di merito, ma una vera pressione psicologica, di tipo identitaria: gli fecero capire che quelle parole non avrebbe dovuto pronunciarle, che non poteva “mollarli”, non doveva osare di rompere il patto con il principale sindacato della sinistra. Fu un momento decisivo.
In quell’ora dura, piena di tensione, nel mezzo del Palasport ormai deserto, D’Alema si trovò davanti al suo bivio: o procedere con determinazione per diventare un leader riformista a tutto tondo, o tornare indietro per tenere insieme il partito, l’apparato, il suo esercito politico. Scelse la seconda strada. Da quel giorno, lentamente, il suo passo cambiò. Le posizioni coraggiose sul lavoro si attenuarono, la critica al sindacalismo difensivo si spense. Non fu una ritirata improvvisa ma un riflusso costante: la tensione innovativa fu sostituita dal calcolo della sopravvivenza. Ci fu un sussulto qualche mese dopo, quando tentò di diventare il Grande Padre delle riforme, da Presidente della Bicamerale. E l’ultimo, estremo, quando con un’abile manovra politica diventò Presidente del Consiglio. Conclusa male anche quell’esperienza, a D’Alema non rimase che tornare alle antiche certezze, rintanandosi nel rapporto con la sua base tradizionale. Fino a diventare, in vecchiaia, l’estremista che non fu neanche da giovane.
Ma il suo, caro Chicco, è il destino che accomuna molti. In una prima fase, qualunque leader, se capace, conquista consensi larghi, anche fuori dal proprio campo. Successivamente, per dare stabilità e durata al suo successo, capisce che deve spingersi oltre, anche se gli eserciti che guidano — i partiti, i sindacati, gli apparati — li trattengono. Chi ha la stoffa per farlo, magari entra nella storia. Chi non ci riesce, resta una bella incompiuta. Basta pensare a quanto è successo a Renzi, politico intelligente e di grandi ambizioni, che investì tutto nelle riforme, e bruciò il suo capitale nel referendum. Da allora è progressivamente rifluito, fino a diventare oggi una costola del cosiddetto campo largo: approdo non proprio brillante. Anche la Meloni oggi si trova di fronte allo stesso dilemma: gestisce il successo con maggiore sapienza e meno narcisismo (la differenza è che ha la solidità e il realismo tipico delle donne), ma comunque finisce per privilegiare la gestione rispetto al cambiamento. È l’eterno pendolo dei leader: essere guide o custodi, aprire strade nuove o rassicurare i propri seguaci. In quel freddo giorno di febbraio, D’Alema decise che era più conveniente sopravvivere al calduccio della sua Ditta.
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Caro Claudio,
Le tue riflessioni me ne suggeriscono altre ancora più ampie di quelle che tu, in modo accurato, riferisci all’evoluzione delle posizioni di Massimo D’ Alema. La mia memoria, sintetica e selettiva, ricorda nei tanti anni in cui vi sono stati Governi di centrosinistra in combinazioni varie – compresa l’ultima sciagurata nell’alleanza con i 5 stelle, che ha lasciato il paese carico di debiti e di demagogia – solo 3 periodi in cui sono state avviate riforme che hanno cambiato in meglio la situazione italiana. Il primo riguarda il Governo Prodi, dal 1996 al 1998, che chiamerei Governo Prodi-Ciampi. Fu la stagione delle privatizzazioni, che hanno cambiato in meglio il panorama delle imprese italiane. Se oggi abbiamo qualche campione internazionale – ENI, ENEL, Finmeccanica, TERNA, Snam e altre ancora – è dovuto a quella stagione. Lo Stato incassò cifre importanti, ma soprattutto sottrasse queste e altre aziende al potere intrusivo della politica. Dove questo non è successo, le imprese rimaste nelle mani dello Stato hanno conosciuto un lento declino. Purtroppo fu commesso un errore serio con Telecom, per il modo in cui fu privatizzata, con il nocciolino di controllo dato ad alcune aziende private che non si mostrarono all’altezza.
Il secondo periodo felice riguarda l’appoggio dato dal PD al Governo Monti. Oggi criticato dagli stessi che lo appoggiarono, ma se i conti pubblici italiani oggi sono in ordine, al contrario di quanto avviene in Francia, questo lo si deve soprattutto alla riforma Fornero, che mise in sicurezza la spesa per pensioni. Il terzo caso è quello del Governo presieduto da Matteo Renzi che, con il jobs act, ha modificato il mercato del lavoro e prodotto una crescita del PIL italiano. Facendo anche diverse altre cose: se fosse passato anche il referendum di riforma costituzionale saremmo in ben altra situazione. Cito questi tre importanti periodi perché le riforme allora fatte sono state successivamente più o meno smentite dal PD, che ne ha preso le distanze e spesso, come nel caso del Referendum costituzionale e oggi del jobs act, con diversi suoi esponenti ne ha organizzato la contestazione. Per dirla in sintesi: vi sono insomma brevi periodi in cui la sinistra democratica osa e produce cambiamenti, ma poi è come se fosse risucchiata dalla sua storia, da uno spirito identitario deteriore, dal bisogno di definire sé stessa in opposizione ai necessari passi per modernizzare il Paese.
E’ una tendenza che risale alla sua storia, dal Togliatti del doppio binario, fino allo stesso Berlinguer: quello del compromesso storico, dell’ombrello della Nato, della democrazia e del pluralismo come valore universale gettato in faccia ai burocrati dei partiti comunisti di tutto nel mondo, della fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre, ma poi incapace di trarre le conclusioni dovute, di recidere i legami con quella storia per entrare a pieno titolo nella storia del socialismo europeo. Un’ambiguità che è poi esplosa nell’opposizione alla svolta di Occhetto e alla conseguente scissione. A questo è dovuto il continuo ritorno all’indietro di cui la biografia di Massimo è un esempio. E che oggi è plasticamente nuovamente rappresentato dalla segreteria di Schlein, dove la deriva minoritaria non è più ispirata dagli ideali del comunismo, ma da una sorta di populismo di sinistra, visto che nessuno dei punti che sono il prodotto dell’ispirazione riformista è presente nel suo programma (vedi, giusto per fare un esempio fra i tanti possibili, l’atteggiamento sulla riforma della giustizia, e poi le incertezze nella politica internazionale, il ricorso indiscriminato alla spesa pubblica ecc). Sembra quasi che nel codice genetico del nostro vecchio Partito ci fosse qualcosa che lo ha reso non completamente riformabile e che ancora oggi tiene incatenati i nipoti al passato. Deve essere proprio così.
