Era la calda notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 a.C. quando, dalla zona delle botteghe artigiane, sul lato del Circo Massimo, l’incendio trasformò la città eterna in un enorme falò. Fu spento solo dopo nove giorni, con migliaia di morti carbonizzati ritrovati soprattutto nei tre rioni popolari andati in fumo: Circo Massimo, Palatino e Suburra. “La catastrofe più grave e spaventosa che si sia mai abbattuta su Roma…attraverso le botteghe che contenevano merci combustibili, rafforzato e sospinto dal vento si diffuse impetuoso nelle zone pianeggianti, salì nelle parti alte, poi tornò a scendere in basso, distruggendo ogni cosa”, scrive Tacito negli Annali.
La cronaca racconta ancora roghi spaventosi come le 36 ore di fuoco che hanno appena incenerito l’isola hawaiana di Maui, il peggior incendio negli Stati Uniti dal 1918 finora con 93 morti, migliaia di edifici in cenere e una catastrofe ambientale che ricorda altre grandi città del mondo polverizzate da furiosi incendi come Costantinopoli che vide l’inferno per ben cinque volte tra il 406 e il 1204, Londra dei roghi del 1212 con il The Great Fire of Southwark e 3.000 morti e del 1666, Boston devastata nel 1872, Chicago nel 1871 con 17.000 edifici bruciati, nel 1906 San Francisco con 25.000 case bruciate con 3.000 arsi vivi, Tokyo nel 1923, Texas City nel 1947.
Ma l’incendio più celebre, non solo dell’antichità, resterà per sempre legato al nome di Nerone che per i senatori suoi acerrimi nemici lo avrebbe fatto appiccare per la sua follia e per liberare spazi urbani alla megalomania di progetti come la gigantesca Domus Aurea. Vero o falso, l’unica certezza nell’allora più grande metropoli con un milione di abitanti, erano gli innumerevoli inneschi: torce, lampade, bracieri e fuochi accesi in ogni casa con spazi interni dove ammassavano legna e fieno per i cavalli. Anche una piccola fiamma diventava incontrollabile, e i romani antichi hanno dovuto fronteggiare almeno un vasto incendio in media ogni 10 anni. Alle fiamme urbane si aggiungevano poi i colossali roghi di foreste e boschi appiccati per aprire radure e pianure per campi agricoli e urbs, e che sfuggivano di mano, portando Cicerone nel 58 a.C. a denunciare la distruzione “della foresta madre dell’Appennino”.
Ma arrivò il giorno in cui, stufi di esorcizzare le fiamme ogni 23 agosto nelle cerimonie della Volcanalia supplicando il dio Vulcanus, nel 289 a.C., istituirono i primi servizi di vigilanza e soccorso con milizie di schiavi, che nel 22 a.C. Augusto riorganizzò nel primo corpo dei vigili antincendio della storia: la Militia Vigilum Regime o Cohortes Vigilum, il cui motto Ubi Dolor Ibi Vigiles è nell’effige dei nostri eroici Vigili del Fuoco. Contava sette Coorti con 7.000 liberti, gli schiavi liberati e inquadrati militarmente e riconoscibili dalle tuniche giallo-marrone e dall’elmo di cuoio, che pattugliavano le strade pronti a intervenire con secchi, scale, asce, ramponi, zappe, seghe e coperte bagnate per soffocare sul nascere le fiamme. E utilizzavano anche tubi di cuoio collegati ai siphones, le prime pompe antincendio capaci di un getto d‘acqua fino a venti metri di distanza.
Crollato l’Imperium, l’Italia divenne per un millennio terra di conquista e un inferno di fuochi e fiamme. L’antincendio ritornò solo con le Gilde medievali, le Pie Società di Mutuo Soccorso frutto di patti tra mercanti e artigiani, ma soprattutto con il primo Corpo della Guardia del Fuoco istituito nella Firenze del 1344 che impegnava muratori, fabbri, falegnami e volontari in 4 squadre organizzate nei 4 quartieri cittadini. E dopo oltre tre secoli di incendi furiosi per le fiamme che sfuggivano anche al controllo di contadini, pastori, carbonai e legnaioli, nel 1664 furono promulgate in Toscana le prime norme che vietavano di “cocere braci o carboni” nei boschi, e l’Opera del Duomo di Firenze, proprietaria delle foreste del Casentino, concesse ai suoi guardaboschi di portare “armi offensive e difensive contro chi abbrucia” come pugnali, sciabole, picche e alabarde. Il Granduca di Toscana autorizzò anche l’uso dell’archibugio a ruota. Nemmeno la Serenissima di Venezia scherzava col fuoco, e condannava chi bruciava o segava alberi senza permesso a “Sette anni in galera, a vogar il remo con ferri ai piedi”, e nel 1676 aggiunse le sue Guardie del Fuoco composte dai facchini veneziani. Il re del Piemonte Vittorio Amedeo di Savoia nel 1630 istituì la “Reale Compagnia dei Brentatori” con 150 carpentieri, falegnami e muratori.
Roma lo fece nel 1738, attivando i Focaroli che erano muratori e falegnami. E nel 1809, Napoleone re d’Italia riorganizzando il “Corpo delle Gardepompes” in tutto l’Impero, fece nascere i primi “Corpi Pompieri” comunali di Firenze, Roma, Milano, Napoli e Torino.
Ma solo il 27 febbraio del 1939, con il Regio Decreto 3333, fu istituito il “Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco” con 94 “corpi” provinciali, poi smilitarizzato dalla legge 469 del 13 maggio 1961, e riorganizzato e inserito con la legge 225 del 24 febbraio 1992 nel Servizio Nazionale della Protezione Civile e poi nel Dipartimento guidato oggi da Fabrizio Curcio di cui i Vigili del Fuoco sono la principale componente operativa con circa 30.000 operatori, coordinati dal Prefetto Laura Lega. Sono loro sulla prima linea del fuoco, e li abbiamo visti lanciarsi anche contro le fiamme di questa estate superorganizzati, ma anche stremati, feriti e ustionati gravi dopo spericolati spegnimenti da terra per salvare vite umane e beni e aree verdi, supportati dalle acrobazie dei Canadair con lanci da 6.000 litri d’acqua fuori in 12 secondi.
Ma la cronaca di questi anni ci racconta come passiamo dal paradiso all’inferno in un attimo fatale, totalmente indifesi e nella totale sottovalutazione degli enormi rischi che corriamo negli anni più roventi della storia dell’Umanità. Supertecnologici e iperconnessi, continuiamo a trasportare il “paradosso di Nerone”: se è sempre chiarissima la matrice colposa e dolosa e patologica dell’innesco, restano quasi sempre senza volto gli incendiari, sia i piromani con seri disturbi mentali che i distratti o i criminali del fuoco. Perché, al tempo di satelliti spia e di telecamere spioni, di droni e geo-localizzazioni, non si becca quasi mai uno che appicca il fuoco? E per quale maledizione le fiamme devono essere alimentate anche dalla complicità di chi deve sorvegliare e prevenire e colpire, e non lo fa?
Dal 1980 ad oggi sono stati ridotti in cenere oltre 4 milioni di ettari di boschi, foreste, macchia mediterranea, vegetazione, con una media di 106.894 ettari all’anno. Non per autocombustione o fenomeni naturali come un fulmine che può capitare ma incide per circa l’1% ma, al 99% dei casi per crimini contronatura di chi è pronto a uccidere, a mandare in fumo ecosistemi secolari e ad aumentare anche i dissesti geo-idrologici perché un incendio brucia persino le radici degli alberi, rendendo sterile il suolo e aumentando lo scorrimento dell’acqua e lo smottamento di terreni.
I terroristi dei roghi, chiamiamoli così perché così è, con il loro sadismo hanno triplicato gli attacchi negli ultimi anni più tropicali, appiccando in media dal 2020 quasi due incendi al giorno. I dati satellitari dell’European Forest fire Information System mostrano le nostre aree sempre più vaste andare in fumo, e ci seguono Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. Abbiamo alle spalle i picchi del 2017 con 160 mila ettari in fumo per 8.000 roghi, il 2021 con 110 mila ettari, il 2022 con 5.207 incendi, e dall’inizio del 2023 già oltre 59.000 ettari inceneriti, con l’aggiunta delle discariche di Bellolampo a Palermo e di Ciampino a Roma con nubi nere alla diossina sulle aree urbane.
Le cause? Un impunito ventaglio di resti non spenti di barbecue, lancio dalle auto di fiammiferi e cicche di sigarette ancora accesi, ripulitura col fuoco di incolti e scarpate stradali e ferroviarie, rinnovazione del pascolo con bruciatura di stoppie, macchinari agricoli che producono fiamme libere e scintille, lanci di petardi e razzi, lucrare su bonifiche e rimboschimenti, ritorsioni della criminalità per vendette, regolamento di conti personali tra confinanti, reazione ai vincoli sulle aree protette. E si moltiplicano gli inneschi multipli posizionati nei punti più irraggiungibili dalle squadre di soccorso ma ben conosciuti da chi appicca il fuoco quanto soffiano i venti più forti. E in un ettaro di superficie in cenere perdono la vita in media anche 400 animali selvatici tra rettili e mammiferi e 300 uccelli. È un problema anche di fronte alla ritrovata ricchezza di biodiversità della penisola con il clamoroso quasi raddoppio della nostra superficie verde rispetto all’immediato dopoguerra. Oggi alberi e vegetazione occupano un terzo della penisola, per l’esattezza 11.778.249 ettari sui 30.133.800. Incredibile, se pensiamo che solo 80 anni fa erano 5 milioni, e nel Settecento ancora meno, dopo deforestazioni amazzoniche medievali e rinascimentali.
Ma se l’Italia degli incendi è altro caso da manuale del farsi male da soli, la Sicilia martire dei roghi, dove dal 2018 sono andati in fumo oltre 200.000 ettari di superfici verdi, è la case history mondiale. Può schierare un esercito di 22.226 uomini tra dipendenti regionali, delle aziende Foreste Demaniali e gli stagionali. È quasi la metà dei 47.313 forestali italiani – in Lombardia sono 416, in Toscana 449, in Veneto 578 -, cinque volte più dei Ranger canadesi che però sorvegliano 400.000 km2 di boschi a fronte dei 3.400 dell’isola, e se in Canada c’è un sorvegliante ogni 95 km2, la Sicilia ne avrebbe uno ogni 0,136 km. Non dovrebbe permettere nemmeno l’accensione di un cerino, ma assiste impreparata all’assalto degli incendiari. Perché delle 125 torrette antincendio solo il 60% è presidiato, ma non di notte e le telecamere e foto-trappole non individuano colpevoli? Perché la manutenzione boschiva parte sempre in ritardo e strade, autostrade e ferrovie arrivano in piena estate con erba secca e alte sterpaglie ai lati? Perché i mezzi antincendio sono in gran parte obsoleti non arrivano le nuove 120 autobotti acquistate nel 2022? Come mai i piani antincendio comunali restano nei cassetti e non parte la centrale operativa?
Ma è l’Italia intera che potrebbe applicare la legge 353/2000 che stabilisce divieti e limitazioni allo sfruttamento economico dei terreni percorsi dal fuoco, e non lo fa. Il 44% dei comuni colpiti da incendi, rileva l’Arma dei Carabinieri, non ha né adottato né aggiornato il “Catasto Incendi” per censire i suoli percorsi dal fuoco. Questa “dimenticanza” guardacaso impedisce di censire i terreni da sottoporre a vincolo. Mentre la Commissione parlamentare bicamerale sulle ecomafie ha accertato oltre 250 incendi di discariche di rifiuti legali o abusive in tre anni, e la Direzione nazionale antimafia ha accertato che “si brucia per coprire altri reati” come rifiuti illegalmente stoccati. Insomma, il Nerone di turno incombe ancora.
