Sin dal pionieristico ‘Manifesto Cyborg’ di Donna Haraway, la tecnologia avanzata è stata considerata potenziale fonte di un miglioramento dell’essere umano e delle sue dinamiche relazionali con l’ambiente circostante. Dagli innesti prostetici agli stessi occhiali, cui Luciano Floridi ha dedicato mirabili considerazioni a proposito della funzione degli oggetti nella percezione dell’uomo della tecnologia, la tecnica non è un dato da mitizzare o da demonizzare; è molto più semplicemente un utile ausilio, nell’ambito di un perimetro umanizzato, per far evolvere la civiltà umana e rendere l’esistenza più agevole. Ciò vale anche, e forse a maggior ragione, per l’Intelligenza artificiale, la cui evoluzione spesso viene ammantata di ombrose e distopiche nebbie. Per questo, le considerazioni di un magnate del Tech come Reid Hoffman sono sempre preziose: perché il pragmatismo americano, legato a dinamiche fortemente innovative, tende negli ultimi tempi a coniugarsi con uno spirito di cultura umanistica che ambisce a non tecnificare l’essere umano, e a renderne la condizione al passo con i tempi che stiamo vivendo.
Hoffman ha un curriculum impressionante. Venture capitalist che della innovazione ha fatto ragion pratica, le sue parole sono preziose per un Paese come il nostro che spesso paga dazio a logiche ossificate e sclerotizzate dietro oceani di norme e di burocrazia. Due sono gli aspetti in particolare sottolineati da Hoffman su cui la classe dirigente italiana dovrebbe interrogarsi: la valenza amplificatrice dell’alta tecnologia e la capacità di regolarla senza asfissiarne il portato dirompente. Sotto la prima angolazione prospettica, l’Intelligenza artificiale presenta la indubbia valenza di amplificare le capacità intellettive e creative umane: se utilizzato come assistente avanzato, un sistema di Intelligenza artificiale può davvero e notevolmente potenziare le capacità decisionali, di elaborazione e di soluzione di problemi complessi.
Ad oggi, la nostra sfera pubblica si serve di intelligenze artificiali piuttosto basiche e, come ci ha insegnato la saga di giustizia amministrativa innescata da procedimenti amministrativi algoritmici a partire dall’ormai lontano 2017, con esiti non sempre ottimali. L’Italia – dice il venture capitalist – deve conoscere, capire e saper utilizzare i dispositivi evoluti e tecnologicamente intelligenti. Non c’è una necessità di invenzione, quanto di organica acquisizione di expertise. In questa prospettiva, per vincere la sfida, diventano essenziali la formazione, l’alta qualificazione, il superamento di logiche esclusivamente giuridiche che tendono a voler proceduralizzare, e rallentare, tutto.
La sfera pubblica non deve dotarsi solo di nuove competenze ma di una ragione teorica algoritmica, nuova, disincagliata dalle sedimentazioni del passato. Una sfida antropologica, più che giuridica, verrebbe da dire. Molto più delicato e complesso il secondo punto, soprattutto per un Paese come l’Italia che sembra tradire una vocazione quasi ontologica alla superfetazione normativa e regolatoria. Hoffman afferma qualcosa di apparentemente elementare ma dirompente per le latitudini concettuali italiche: l’Intelligenza artificiale deve essere regolata, senza dubbio alcuno, ma in maniera tale da non annullare la spinta innovativa che queste tecnologie importano.
Non appare casuale che a livello sovra-nazionale, la regolazione delle intelligenze artificiali stia passando attraverso collaborazione tra diversi attori istituzionali, spesso appartenenti alla società civile, e si stia muovendo anche mediante elementi etici, come Dichiarazioni o Carte. Il punto nodale e irrinunciabile è quello di mantenere l’evoluzione tecnologica centrata sul fattore umano, non perdendo mai di vista la connotazione assiologica dello sviluppo tecnico: il quale, in altre parole, non dovrà mai essere piegato all’idea di una sostituzione dell’umano con l’inanimato intelligente. Complementarietà, collaborazione e amplificazione delle umane capacità, non sostituzione.
