Dazi, carenze e costi energetici: la genetica può aiutare la Ue

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Le sfide che dovranno affrontare, a livello globale, le agricolture e i sistemi alimentari richiedono essenzialmente due cose: rafforzare la sicurezza alimentare e salvaguardare le risorse per le generazioni future. Le risposte a tali esigenze possono venire solo da un approccio basato sulla scienza, su dati e pratiche di dimostrata validità, come l’intensificazione sostenibile, l’agricoltura rigenerativa, le innovazioni applicate al miglioramento genetico.

Per l’Ue tali sfide si presentano in modo ancor più complicato. Pesano le recenti tensioni geopolitiche che hanno fatto alzare i costi energetici e dei carburanti e hanno provocato aumenti dei prezzi delle materie prime e delle commodities, dei fertilizzanti e dei mangimi. Inoltre, influisce il particolare intreccio tra sistemi agricoli e sistemi alimentari: il nostro continente importa derrate, le trasforma in prodotti alimentari e poi esporta. Siamo fortemente dipendenti dalle importazioni di proteine vegetali per la produzione di mangimi: circa il 70% del fabbisogno europeo è importato, mentre il 60-70% della terra coltivata è già dedicato alla produzione di alimenti per l’allevamento animale. Anche le importazioni di ortofrutta in futuro tenderanno ad aumentare. L’Europa è autosufficiente solo per frumenti e orzo, carne, olio d’oliva e prodotti lattiero-caseari.

A queste fragilità, vanno aggiunti gli impatti sulle attività agricole indotti dall’innalzamento delle temperature. Ne sono sconvolti i cicli biologici delle piante coltivate, delle infestanti, dei parassiti, dei patogeni. Ne sono influenzate le capacità produttive delle aziende e la qualità dei prodotti. Nel tempo, determinate varietà non saranno più adatte ai tradizionali territori di coltivazione. Il Cannonau potrebbe sparire dalla Sardegna a favore dei territori viticoli francesi. La viticoltura potrebbe ridursi in Italia e Spagna ed espandersi in Inghilterra.
A tali sfide le agricolture europee dovranno far fronte con gli strumenti classici (genetica, meccanizzazione e chimica) e con il digitale che serve ad efficientare l’uso dei fattori produttivi. Insomma, ci vuole più ricerca, formazione, trasferimento tecnologico e comunicazione per la condivisione delle innovazioni con la società.

Il 50% degli aumenti di produzione che si sono avuti negli ultimi 60 anni dipende dal miglioramento genetico. L’Italia vanta una lunga tradizione in tale ambito. Negli anni ‘30, il genetista Nazareno Strampelli sviluppò varietà di grano a calibro ridotto incrociando il grano tenero con cultivar esotiche semi-nane, ancor prima del famoso lavoro di Norman Borlaug. Gian Tommaso Scarascia Mugnozza introdusse l’applicazione della mutagenesi vegetale mediante radiazioni ionizzanti e Francesco Salamini guidò il miglioramento genetico nell’era della genetica molecolare e delle biotecnologie. Le prime colture geneticamente modificate in Europa furono testate sul campo principalmente in Italia e Francia tra il 1992 e il 2004. I tratti modificati includevano oltre una dozzina di caratteristiche di tolleranza o resistenza in 24 diverse specie vegetali. Inizialmente, il mondo politico italiano mostrò interesse per le biotecnologie in agricoltura, con investimenti pubblici nella ricerca. A Trieste nacque il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia – ICGEB nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite. Si sviluppò anche un settore privato dedicato all’agrobiotecnologia.

Tuttavia, con l’inizio del nuovo millennio, i movimenti ambientalisti cavalcarono i timori dell’opinione pubblica per l’impatto di queste tecnologie sugli ecosistemi e l’avversione dei consumatori verso le multinazionali. A premere contro gli OGM furono anche interessi economici: il ritardo tecnologico delle aziende europee di breeding, il potenziale impatto sulla produzione di agrofarmaci in Europa dovuto ai nuovi tratti genetici e la competizione per i sussidi agricoli dell’UE. Sicché ci fu un improvviso arresto nell’uso delle tecnologie del DNA ricombinante e il blocco della ricerca sulle piante. E l’Italia è passata da 300 promettenti sperimentazioni in campo a zero nei 20 anni successivi.

Altre tecniche di ingegneria genetica sono state inventate successivamente. Vanno sotto il nome collettivo di tecniche di editing del genoma, all’estero indicate come NGT, New Genomic Techniques, in Italia chiamate TEA, Tecniche di Evoluzione Assistita. La nuova denominazione è stata proposta dalla Società Italiana di Genetica Agraria (SIGA) nel tentativo di migliorare la comunicazione e dissociarsi dalla sigla OGM, ormai invisa all’opinione pubblica. Il termine TEA enfatizza le tecnologie piuttosto che l’organismo in sé, rendendo il termine resiliente ai progressi tecnologici, a differenza della definizione legale di OGM. Tra le poche organizzazioni italiane che hanno sostenuto queste tematiche, un contributo significativo è venuto dall’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca Scientifica.

Nel 2023, a seguito del documento della Commissione Europea del luglio 2023 sui NGT e con il supporto di Cia, Coldiretti e Confagricoltura, il Parlamento italiano ha deciso di sostenere l’editing genetico nel miglioramento genetico vegetale. Le TEA sono precise, relativamente economiche e rapide e permettono di effettuare mutagenesi mirata. Sono utilizzabili nelle piante il cui genoma sia ben conosciuto, a oggi per esempio frumento, vite, pomodoro, riso; questo perché se si conosce quale sia la funzione di un certo gene si sa anche cosa succede spegnendolo, è il caso dei geni di suscettibilità a certe malattie che possono essere inattivati. Poter ottenere piante resistenti a determinate malattie fungine consentirebbe la riduzione dell’uso di fungicidi.

Sono già state avviate le prove in campo per il riso resistente al brusone da una collaborazione dell’Università Statale di Milano, o le viti resistenti alla peronospora di uno spin-off dell’Università di Verona, tutte malattie fungine piuttosto dannose. Anche il miglioramento qualitativo è preso in considerazione nelle sperimentazioni. Ne è un esempio il pomodoro arricchito di provitamina D3 del CNR in collaborazione con il John Innes Center o dell’utile amminoacido GABA. L’innovazione in agricoltura ha bisogno di un ambiente fertile in cui diversi soggetti dovrebbero fare la loro parte. Gli agricoltori e i ricercatori dovrebbero raccontare il proprio lavoro nei campi e nei centri di ricerca. I politici dovrebbero promuovere investimenti e regole semplici, basate sulla conoscenza ed abilitanti. I giornalisti e i comunicatori dovrebbero informare correttamente i cittadini per evitare che si formino pregiudizi e allarmismi ingiustificati.