Dazi Usa sui chip venduti in Cina, non più capitalismo contro comunismo: Trump si sta posizionando come un esattore permanente di pedaggi

An exhibitor introduces the Nvidia DGX Spark to visitors at the Nvidia exhibition booth during the 3rd China International Supply Chain Expo at the China International Exhibition Center, in Beijing, Thursday, July 17, 2025. (AP Photo/Andy Wong) Associated Press/LaPresse

L’accordo con cui Nvidia e AMD avrebbero concordato di cedere al governo degli Stati Uniti il 15% dei ricavi derivanti dalle vendite di chip in Cina segna un cambio di paradigma nel modo in cui gli Stati Uniti stanno trasformando l’accesso al mercato e la supremazia tecnologica in strumenti di leva geopolitica. In apparenza, Nvidia e AMD accettano di cedere il 15% dei ricavi realizzati in Cina pur di continuare a vendere chip in uno dei loro mercati più importanti. In realtà, Washington si sta posizionando come un esattore permanente di pedaggi sulle filiere tecnologiche ad alto valore aggiunto dirette verso un rivale strategico.

Storicamente, i controlli all’export miravano a bloccare o limitare del tutto il trasferimento di tecnologia; qui invece si fonde la logica del controllo con quella della monetizzazione. Il modello consente alle aziende Usa di mantenere la quota di mercato, ma al tempo stesso di incanalare un flusso stabile di entrate nelle casse pubbliche, potenzialmente destinato a finanziare iniziative domestiche sui semiconduttori, ricerca e sviluppo in ambito di difesa o a compensare i costi delle politiche industriali. È un ibrido: parte regime sanzionatorio, parte estrazione di profitto in partnership con lo Stato. Per Pechino, la questione si complica: ridurre ora gli acquisti di chip USA significherebbe anche tagliare una nuova fonte di introiti per Washington, rendendo politicamente più sostenibili le restrizioni americane.

Per le imprese statunitensi, invece, il segnale è chiaro: nei settori strategici, il “passaggio obbligato” attraverso la burocrazia governativa può comportare un costo strutturale di revenue sharing, soprattutto nelle industrie legate alla sicurezza nazionale. Questo potrebbe diventare un prototipo di policy in ambiti come infrastrutture AI, minerali critici o biotech: consentire al privato di operare sui mercati globali, ma con lo Stato che trattiene una quota diretta delle transazioni sensibili con gli avversari geopolitici. In un’epoca di alto debito e competizione strategica, non è più una questione di libero mercato, ma di mercati che funzionano all’interno di un’architettura di sicurezza curata dal governo, in cui ogni accordo porta con sé una tassa geopolitica.

Se consolidato, segnerà l’inizio di un modello statunitense in cui commercio e diplomazia economica si fondono al punto da rendere licenze all’export, ripartizione dei ricavi e politiche industriali un unico sistema integrato. Non più capitalismo contro comunismo, ma un duello di capitalismo di Stato, con Washington che ha appena aggiunto un nuovo pezzo sulla scacchiera.