Escalation
Usa-Cina: l’accordo non risolve la frattura industriale. Il caso del corindone elettrofuso

L’intesa siglata recentemente tra Washington e Pechino riporta le lancette dell’orologio al 2 aprile. Il compromesso raggiunto consente di disinnescare, almeno temporaneamente, l’escalation tariffaria, ma non modifica la traiettoria di fondo dello scontro strategico tra le due superpotenze. A differenza di quanto sostenuto da alcuni osservatori, Pechino non sta vincendo la guerra commerciale. Piuttosto, sta capitalizzando su leve industriali che l’Occidente ha progressivamente dismesso. Il monopolio cinese sui magneti a base di terre rare rappresenta oggi una delle vulnerabilità chiave per Washington. Si tratta del vero cuore delle catene del valore dell’elettrico e soprattutto della difesa, ambiti in cui la domanda resta rigida e non facilmente diversificabile nel breve termine.
L’accordo
Il governo cinese ha acconsentito a riprendere il rilascio delle licenze di esportazione per i magneti per un periodo di sei mesi. In cambio, gli Stati Uniti ridurranno alcune restrizioni su forniture di cui la Cina è import-dipendente: motori per aerei ed etano, materia prima derivata dal fracking e utilizzata nella produzione di plastiche. L’accordo riporta i dazi americani medi sulle importazioni cinesi a un livello del 55%, sostanzialmente allineato al quadro scaturito dopo il primo annuncio di Trump lo scorso aprile. Di fatto, il mercato torna sui livelli che già avevano generato turbolenze finanziarie nei mesi scorsi. Chi a suo tempo considerava lo scenario critico, oggi non ha ragione di ritenere che la situazione si sia strutturalmente migliorata: lo shock è stato solo momentaneamente ricalibrato.
Lo scenario
L’Europa emerge ancora una volta come l’attore più vulnerabile dello scacchiere commerciale globale. Il dirottamento dei flussi commerciali cinesi dagli Stati Uniti verso l’UE, innescata dall’escalation post-aprile, è destinata a proseguire finché Bruxelles non adotterà misure protettive equivalenti. La strategia europea — o meglio la sua assenza — ha prodotto un doppio vincolo: dipendenza produttiva dalla Cina e dipendenza militare dagli Stati Uniti. Un posizionamento che oggi lascia l’Unione in balia di decisioni altrui. Al momento non è chiaro quali concessioni sostanziali Bruxelles intenda offrire per evitare la piena applicazione dei dazi al 20% imposti dagli Stati Uniti. La rimozione della digital tax viene ormai considerata il prezzo minimo per accedere a un negoziato, ipotesi su cui la Commissione sembra orientata a convergere.
Il tasso
Nel frattempo, la Casa Bianca prosegue l’opera di riequilibrio industriale interno: dazi al 50% su acciaio e alluminio, 25% sull’automotive e riforma fiscale per colpire le agevolazioni del settore farmaceutico europeo. Anche in caso di una riduzione parziale dei dazi dal 20% al 10%, il regime commerciale resterebbe fortemente selettivo e distorsivo. Lo scontro si sta progressivamente spostando sul controllo delle catene di approvvigionamento strategiche. Pur avendo parzialmente riaperto l’export di magneti, Pechino non consente alle aziende americane di accumulare scorte strategiche. Diversi contractor USA della difesa hanno avviato programmi di diversificazione, ma buona parte della componentistica per sistemi d’arma — in primis aerei da combattimento — resta ancora legata alla produzione cinese. Washington applica la medesima logica sul fronte tecnologico: ha bloccato le esportazioni di semiconduttori avanzati verso la Cina e ha imposto ai governi europei — in primis quello olandese — restrizioni sull’export di macchinari per la produzione di chip.
Il corindone elettrofuso
L’accordo non risolve la frattura industriale e tecnologica che divide Washington e Pechino. Al contrario, ne definisce i nuovi confini operativi. Per l’Europa, lo spazio di manovra si restringe ulteriormente. Questa dinamica di controllo sulle catene di approvvigionamento strategiche non si limita ai magneti a base di terre rare. Un altro caso emblematico riguarda il corindone elettrofuso (fused alumina), un materiale cruciale per numerosi settori industriali e strategici, dalla produzione di abrasivi e refrattari fino all’industria della difesa e aerospaziale.
L’industria europea del corindone rappresenta migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti, e la sua salvaguardia è essenziale non solo per motivi economici, ma anche per garantire l’indipendenza tecnologica e la sicurezza industriale dell’Unione. Questo caso sottolinea come la competizione globale tra Occidente e Cina non sia più solo una questione commerciale, ma una sfida strategica che coinvolge la capacità di mantenere produzioni industriali critiche sul territorio europeo. Senza un intervento deciso per contrastare il dumping e sostenere la filiera europea del corindone, si rischia non solo la perdita di capacità produttive e posti di lavoro, ma anche una pericolosa dipendenza da un unico fornitore estero in settori chiave per la difesa e l’economia.
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