Mancava solo, buon ultimo arrivato, Piercamillo Davigo, a spiegarci che “D’accordo, nessuno tocchi Caino (che comunque va in esilio), ma prima di tutto nessuno tocchi Abele, perché la giustizia esiste per proteggere i diritti di tutti, anche quelli delle vittime”. Che i parenti della vittima di un omicidio rispettino solo la sentenza di condanna, possibilmente alla pena eterna senza possibilità per il condannato di tornare mai alla vita è nella normalità, purtroppo. Che analoga lamentela esca dalla mente e dalla bocca di un magistrato, per quanto in pensione come Piercamillo Davigo, fa un po’ rabbrividire. E fa impressione tutta quanta la sua formazione giuridica, dall’analisi del processo fino al concetto di pena.
Questa volta, in un articolo scritto nei giorni scorsi sul quotidiano di famiglia dei pm, niente barzellette o raccontini patetici come quello che arriva alla conclusione di quanto sia più conveniente uccidere la moglie piuttosto che divorziare. Una storia che non fa ridere, perché utilizzata a dimostrare che in Italia esistono solo colpevoli che la fanno franca, come l’uxoricida della barzelletta. Si parte invece da un fatto di cronaca dei più tragici e “chiacchierati” nell’eternità del tempo, l’omicidio di Alberica Filo della Torre, avvenuto nel 1991, quindi trent’anni fa. Il dottor Davigo impugna la penna non per ripercorrere una storia che grida vendetta per l’incapacità e l’abulia dei suoi ex colleghi, ma per associarsi a chi si scandalizza perché nei giorni scorsi la persona condannata e rea confessa per quell’omicidio ha terminato di scontare la pena ed è uscita dal carcere. Troppo presto, secondo lui.
Del resto, di che stupirsi? Non c’è Cartabia che tenga, non sono sufficienti le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo e neanche quelle della Corte Costituzionale, se ancora ieri sul Corriere della sera e con una firma esperta come quella di Andrea Purgatori, leggiamo titoli come “La Procura aveva chiesto l’arresto per Castellino. Ma il giudice l’ha negato”. Stiamo parlando di fatti di questi giorni e di un leader di Forza Nuova arrestato in seguito all’aggressione alla sede nazionale della Cgil di sabato scorso. Nell’articolo è spiegato chiaramente il fatto che un gip romano l’agosto scorso non ha accolto la richiesta del pm di custodia cautelare per violazione degli obblighi di sorveglianza speciale cui Castellino era sottoposto. Questo in osservanza di sentenze della Cedu e dell’Alta Corte. Ora, che senso ha mettere alla berlina uno (per fortuna) sconosciuto gip solo perché si è mostrato più garantista del procuratore Prestipino e dei suoi sostituti?
Piercamillo Davigo fa un ragionamento più ampio. Ma occorre una breve sintesi di quei fatti tragici di trent’anni fa per inquadrarlo. La signora Filo della Torre fu trovata assassinata una mattina nella sua villa all’Olgiata e una serie di errori e piste false da parte degli inquirenti trasformarono il caso in un giallo irrisolto. Prima si inventò la pista passionale, poi addirittura quella di fondi neri del Sisde. Tralasciamo i nomi dei pubblici ministeri per carità cristiana, perché solo la caparbietà dei familiari della vittima ha fatto riaprire il caso nel 2007 dopo ben due precedenti accantonamenti da parte di due diversi magistrati. Nuove e più sofisticate analisi del dna hanno portato infine all’individuazione del responsabile dell’omicidio, un filippino laureato in ingegneria navale che era stato domestico della signora, poi da lei licenziato. Il quale ha subito confessato, dicendo di essersi tolto un peso. Era incensurato e collaborativo. La sua vita non aveva altra macchia, oltre a quella, gravissima, dell’omicidio. Processato con il rito abbreviato, è stato condannato a sedici anni di carcere ed è uscito dopo dieci, nei giorni scorsi. A norma di legge.
Una legge, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 che, insieme a tante altre, tra cui le proposte dell’attuale governo, al dottor Davigo proprio non piace. Non la apprezza perché, secondo lui, essendo la norma penale sostanzialmente una “minaccia”, deve poi mantenere la promessa. Cioè, se la pena edittale impegna chi deve applicarla, cioè il giudice, a tenermi in galera per X anni, quella deve essere, fino all’ultimo giorno. Altrimenti, addio deterrenza. Ora, non sappiamo su quali testi abbia studiato il dottor Davigo, e neanche dove abbia vissuto negli ultimi decenni. Gli risulta che mai qualcuno abbia consultato il codice prima di commettere un delitto per poi spaventarsi per la minaccia della pena? Sa benissimo che l’inasprimento delle pene non ha mai indotto nessuno a desistere dal delinquere. Inoltre, tra minacce e rigidità inflessibile nell’applicazione delle sanzioni, come sarebbe possibile, secondo lui, dare applicazione all’articolo 27 della Costituzione e alla rieducazione del condannato? Mettendogli i ceppi alle caviglie? Non conforta il fatto che un magistrato dal pensiero così reazionario abbia svolto per tanti anni un ruolo delicato come quello di pubblico ministero.
Ma molti giuristi, forse meno “sottili” di lui, credono che la norma penale non sia una “minaccia”, ma la previsione di una sanzione che, nel rispetto della Costituzione, conduca il colpevole, tramite l’espiazione, a ricucire quello strappo attuato con il delitto nei confronti della comunità. E molti pensano anche che forse non sia proprio il carcere lo strumento migliore per questo scopo. L’ex pm di Mani Pulite, per tirare l’acqua al proprio mulino, e ritenendo tutti gli altri (tranne lui) molto ignoranti, cita in continuazione il processo penale americano. In questo caso, il fatto che “la persona condannata per l’omicidio di Robert Kennedy ha scontato oltre cinquant’anni di carcere prima di essere scarcerato”.
Anche su questo punto ci permettiamo un paio di osservazioni. Prima di tutto, in Italia c’è un migliaio di detenuti condannati, anche grazie all’esistenza dei reati associativi, all’ergastolo ostativo che non potranno uscire dal carcere se non defunti. E poi, dottor Davigo, basta scherzare. Negli Stati Uniti non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e la maggior parte delle cause finisce con un patteggiamento, con cui le parti (ricordiamo anche che il rappresentate dell’accusa non è un magistrato ma un avvocato dello Stato) concordano una pena equa. Il caso da lei citato è semplicemente un’eccezione. Per tornare alla vicenda da cui siamo partiti, il cittadino filippino, non arrestato subito a causa dell’inefficienza degli inquirenti, ha comunque vissuto dieci anni senza commettere altri reati. Poi, quando è stato catturato, ha confessato e in carcere ha tenuto una condotta esemplare. Perché non avrebbe potuto tornare a casa dopo dieci anni? Dieci anni della vita di una persona non sono pochi, sono tanti. Sono moltissimi.
Infine, il dottor Davigo, pur con la citazione della Bibbia, ma invertendo l’ordine dei brani (il “sii maledetto” viene prima del “nessuno tocchi Caino”) cita l’Associazione, cui aderiscono anche tanti suoi ex colleghi, nata per l’abolizione della pena di morte nel mondo e contro la tortura. Il che, tradotto in italiano, significa anche battersi per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, magari anche contro l’ergastolo stesso, magari anche contro il concetto stesso di carcere, cioè di privazione totale della libertà. Quindi per un’idea di giustizia che è il contrario delle minacce e delle vendette. Ad Abele pensano tutti, come è giusto, a partire dalle leggi e dai codici. Nessuno lo tocca. Ma “non toccare Caino” è fare giustizia per ogni individuo, quindi per la comunità intera, cui riconsegnare migliore ogni suo figlio, anche coloro che avevano strappato il contratto sociale. Solo così si è davvero “sottili”.
