Sta facendo discutere la sentenza che in Corte d’Appello ha assolto un giovane condannato in primo grado per violenza sessuale in quanto la ragazza che ha denunciato la molestia avrebbe indotto in qualche modo l’imputato a “osare”. Ribaltato il verdetto di primo grado che aveva condannato a due anni, due mesi e venti giorni il giovane. Non prova nulla di “inequivocabilmente deponente in senso accusatorio” la zip dei pantaloni della ragazza strappata. La vicenda arriva da Torino, riguarda due ventenni, è stata ricostruita da Il Corriere della Sera. La Procura ha deciso di fare ricorso in Cassazione.
I fatti risalgono al 2019. Due giovani, un ragazzo e una ragazza, si conoscono da cinque anni. C’è stata qualcosa tra i due all’inizio, poi solo amicizia. Qualche mese prima un altro bacio. La ragazza, difesa dall’avvocato Elisa Civallero, aveva chiarito che quel bacio di poco tempo prima era stato solo un evento episodico, nessun cenno a voler approfondire la relazione. Quella sera di maggio 2019 si ritrovano, per un aperitivo. Si trovano nei bagni di un cortile interno, in un locale nel centro di Torino. È lì che sarebbe scattata la presunta violenza.
La vittima ne parla con “dichiarazioni reiteratamente ribadite con costanza, precisione e coerenza, oltre che in sintonia con le ulteriori risultanze acquisite”, scrive il gup nella sua motivazione. La cerniera dei pantaloni della ragazza è strappata. Per il presidente della quarta sezione penale della corte d’Appello non significa granché: “L’unico dato indicativo del presunto abuso potrebbe essere considerato la cerniera rotta, ma l’uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura”.
Secondo i giudici della Corte d’Appello, in buona sostanza, “non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa, aperture lette certamente dall’imputato come un invito a osare. Invito che l’uomo non si fece ripetere, ma che poi la ragazza non seppe gestire, poiché un po’ sbronza e assalita dal panico”.
Un’“occasione che non si fece sfuggire”. La ragazza davanti al giudice di primo grado ha deposto senza mezzi termini: “Ho ripetuto più volte a lui: ‘Che cazzo stai facendo? Che cazzo stai facendo? Non voglio’. Il sostituto procuratore generale Nicoletta Quaglino non esita a definire la sentenza “contraddittoria e illogica rispetto alle risultanze processuali”. Secondo il ricorso “la corte dimostra di non applicare i principi giurisprudenziali in tema di consenso all’atto sessuale” e “illogica appare la sentenza quando esclude la sussistenza del dissenso, sia perché tale dissenso risulta manifestato con parole e gesti, sia perché nessun comportamento precedente può aver indotto l’agente in errore sulla eventuale sussistenza di un presunto consenso” e “non risulta provata la mancanza di dissenso da parte delle persona offesa, anzi risulta evidente la sussistenza di un dissenso manifesto”.
