Non furono solo i pubblici ministeri di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia (cui va aggiunto Nino Di Matteo, l’unico non indagato per calunnia) a costruire il cordone sanitario intorno al falso pentito Enzo Scarantino in modo che nulla potesse turbare quella “verità” costruita a tavolino sull’omicidio di Paolo Borsellino. Arrivò un momento in cui, mentre il primo processo era pronto in grande spolvero, si mossero all’unisono i massimi vertici siciliani della magistratura e dello Stato. Dopo la diffusione, grazie anche alla brava giornalista di Epoca, Silvia Tortora, la figlia maggiore di Enzo, della lettera della moglie di Scarantino che denunciava le torture che avevano preceduto la costruzione del “pentito” chiamando in causa esplicitamente il questore Arnaldo La Barbera, si decise di correre al riparo.
A prendere l’iniziativa fu il procuratore capo Giancarlo Caselli, da poco giunto a Palermo, che chiamò i giornalisti facendo trovare al proprio fianco anche il procuratore generale Antonino Palmeri e il prefetto Achille Serra. Conferenza stampa delle grandi occasioni, ufficialmente per difendere la reputazione del questore La Barbera. In realtà l’incontro con la stampa fu dedicato alla difesa della reputazione di Enzo Scarantino, senza la cui testimonianza sarebbe crollato l’intero impianto dell’accusa. Echeggiò in quelle stanze e quel giorno il lamento di chi temeva anche solo un granellino nell’ingranaggio del castello di accuse. A ripensarci oggi, vien da domandarsi se davvero tutti quei bravi magistrati e uomini dello Stato fossero convinti del fatto che un meccanico semianalfabeta con frequentazioni alquanto trasgressive anche per le regole delle cosche, avesse potuto, insieme a qualche altro ragazzotto come lui, organizzare la strage di via D’Amelio.
I discorsi furono chiari, quel giorno: la divulgazione di informazioni su Scarantino, sugli abusi subiti, la lettera della moglie, la ritrattazione, tutto ciò era orchestrato dalla mafia e faceva parte di una «campagna di delegittimazione nei confronti dei collaboratori di giustizia». Negli stessi giorni i procuratori di Caltanissetta aprirono il fascicolo sulla “sovrastruttura” di politici e giornalisti governati dalla mafia per screditare Scarantino. Fu anche sequestrato il filmato di Studio aperto con due interviste in cui il falso pentito diceva di voler tornare in carcere ( dopo la collaborazione era stato sistemato con la famiglia in un appartamento a Jesolo) e di non voler collaborare più. Poi lui sparì e la moglie tornò in Sicilia. Iniziarono infine i processi, uno, due e tre. Fioccarono gli ergastoli contro persone che non solo erano state vessate e torturate, come Enzino, nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara, ma erano anche del tutto estranee all’omicidio Borsellino.
Scarantino fu trattato da vero collaboratore, con pene più lievi degli altri. Tutti i processi parvero volare con primo, secondo grado e Cassazione senza che mai un dubbio solcasse la fronte di magistrati togati e popolari. I pubblici ministeri di Caltanissetta, proprio coloro che oggi sono sospettati di aver suggerito e poi calunniato, erano i trionfatori. Sentiamo le dichiarazioni di uno di loro, Nino Di Matteo, nella requisitoria del 1998: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancora di più le sue precedenti dichiarazioni». E ancora: «L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa Nostra».
Non è mancata, nelle sue parole, la stilettata politica: «Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarli di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario». Dieci anni dopo, al processo quater, sarà il pentito doc Gaspare Spatuzza a smentirlo. Sono passati sedici anni dall’omicidio Borsellino e finalmente gli innocenti possono essere scarcerati e Scarantino, che non sapeva neanche dove fosse via D’Amelio né chi fosse Borsellino, sarà creduto: lui con quella strage non c’entra affatto. E neppure tutti quelli che lui aveva accusato, non certo spontaneamente. E tutto quell’apparato dei vertici dello Stato che partecipò al grande circo della costruzione a tavolino del falso pentito, che fine ha fatto? Qualcuno come Tinebra e La Barbera non c’è più, altri come Caselli e Serra sono in pensione. Ma altri non demordono. C’è ancora il processo Stato-mafia, no?
