La kermesse di Fratelli d’Italia
Di Gregorio: “Atreju è internazionale grazie alla centralità di Meloni, la premier ha fatto scacco matto a Schlein”
Il politologo analizza la parabola dell’evento: “Non è più una festa identitaria Ora ha un profilo più istituzionale”
Ben 450 relatori e 82 panel. 77 giornalisti, di cui 24 direttori di testata. 20 parlamentari delle opposizioni e 20 esponenti del movimento studentesco giovanile. Decine e decine di ore di confronto libero. I numeri di Atreju sono imponenti, simbolo di come la kermesse di Fratelli d’Italia non sia una semplice festa di partito, ma un grande palcoscenico di respiro internazionale. Merito di una macchina organizzativa in grado di strappare la disponibilità di ospiti di primo piano e di incastrare le agende. Ne parliamo con Luigi Di Gregorio, politologo e saggista che insegna Comunicazione politica all’Università della Tuscia.
Tutti ad Atreju, il Sanremo della politica: se non partecipi, non conti. Come è cambiata la kermesse in questi anni?
«È cambiata molto, seguendo la parabola del partito e della sua leader. All’inizio era una festa irriverente, molto “giovanile”, identitaria e con ospiti quasi esclusivamente politici. Oggi è un evento internazionale che dura una settimana e attraversa tutto: politica, spettacolo, cultura pop. L’irriverenza è rimasta, ma vive più sui social; l’evento in sé ha adottato un profilo più istituzionale».
Però c’è una grande assente: Elly Schlein. Una brutta pagina per il Pd…
«Schlein ha tentato una mossa che, sulla carta, poteva sembrare furba: vengo, ma solo nel format del duello a due, così da essere “incoronata” leader del centrosinistra, proprio a casa di Meloni. La mossa, però, era leggibile e Meloni ha risposto in modo ancora più abile: finché il centrosinistra non decide chi è il leader, sono entrambi invitati. A quel punto, era una specie di scacco matto: se Schlein accetta, ha vinto Meloni; se non accetta, rischia di apparire come colei che scappa. Ha scelto la seconda strada, sostenendo che sia Meloni a fuggire. Non so quanti le hanno creduto».
Invitare i leader dell’opposizione ed esponenti culturali progressisti serve a spazzare via le accuse di fascismo, ma anche ad accreditarsi al di fuori del centrodestra. Giorgia Meloni ha le carte in regola per riuscirci?
«A giudicare dalle ultime edizioni, direi che c’è già riuscita. D’altronde, solo in Italia c’è ancora chi prova a inseguire la narrazione del fascismo/antifascismo. E mi pare non funzioni neanche qui. All’estero, direi che il profilo di immagine di Giorgia Meloni è molto diverso, e da tempo ormai».
La macchina organizzativa di Atreju fa una certa impressione: incassare l’ok da ospiti di spessore, anche internazionali, centellinare i tempi, incastrare le agende. Mica facile…
«Per niente. È un evento molto complesso, ben oltre le agende, ma ha una macchina organizzativa ormai collaudata. Gli ospiti internazionali non arrivano per caso. Arrivano per la credibilità e centralità della “padrona di casa”».
Però c’è meno trumpismo, poco mondo Maga, nonostante gli ottimi rapporti con Trump. È un segnale?
«Meloni mantiene ottimi rapporti personali e istituzionali con Trump, ma non ha mai pensato di importare il “modello Maga” in Italia. È una scelta coerente con il suo posizionamento: atlantista, affidabile, conservatrice ma non iper-polarizzante. Il messaggio è chiaro: amicizia politica sì, imitazione no».
Ci saranno anche Carlo Conti, Mara Venier, Ezio Greggio, Raoul Bova. Il «tocco pop» aiuta o rischia di svilire la portata dell’evento?
«No, ci sta. Ormai è anche un evento pop. E comunque il 90% dei panel è politico».
Guardiamo al post-Atreju. Il referendum sulla separazione delle carriere, Italia centrale nella ricostruzione dell’Ucraina in caso di pace, promozione del Paese nei rating: se tutto filerà liscio, Meloni potrà anticipare le elezioni politiche per capitalizzare il consenso ai massimi storici?
«Il referendum è una tappa importante. È l’unico voto “nazionale” da qui alle politiche, e se prevarrà il Sì, sarà un segnale forte. L’altro segnale – ancora più forte – sarebbe completare l’intera legislatura senza un governo Meloni II. Non è mai successo nella storia della Repubblica, in 80 anni e 68 governi. Avrebbe un contenuto simbolico enorme, un messaggio di stabilità che nessun premier ha mai potuto vantare. Questi due asset, insieme ai successi internazionali, costituiscono una solida base di capitalizzazione del consenso».
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