Ambiente
Dilemma strategico sul plutonio, gli Stati Uniti tra deterrenza e sicurezza
L’opportunità deriva dal riciclaggio dei “pit”: le instabili sfere di plutonio al centro delle bombe nucleari. Ma riutilizzare i nuclei per la produzione di energia è un’intuizione tanto vantaggiosa quanto pericolosa
Gli Stati Uniti si trovano oggi a fare i conti con un nuovo problema strategico e tecnologico: da un lato l’opportunità di trasformare il plutonio delle testate nucleari dismesse in carburante per i reattori avanzati; dall’altro, l’impasse quasi decennale nella produzione dei nuclei di plutonio — i cosiddetti “pit” — destinati alle armi nucleari. Entrambe le vicende rivelano le difficoltà, i rischi e i costi enormi di qualsiasi strategia nucleare americana, anche in un momento in cui la transizione energetica e la sicurezza globale dovrebbero essere considerate prioritarie.
Cos’è un “pit” nucleare
Si tratta di una sfera, del diametro di 18-22 cm, costituita da circa 4 kg di plutonio 239 metallico e cava al centro per ospitare una sorgente di neutroni. La sfera è contenuta in una più grande costituita da esplosivo convenzionale. Quando quest’ultimo viene fatto esplodere, crea un’onda d’urto che comprime il pit verso il centro, permettendo al plutonio di raggiungere la massa critica: quella condizione in cui la maggior parte dei neutroni emessi dalla fissione dei nuclei di plutonio innesca la fissione di altri nuclei vicini ai primi creando una reazione a catena e, quindi, l’esplosione della bomba a fissione nucleare. Nelle, enormemente più potenti, bombe a fusione, l’energia prodotta dall’esplosione di una bomba a fissione (come quella prima descritta) serve, a sua volta, per innescare la fusione di una seconda, e molto più devastante, bomba nucleare.
Quindi, per entrambe le classi di bombe nucleari, il pit di plutonio è un componente indispensabile. Il plutonio, però, non esiste in natura: è fortemente instabile e può essere generato solo in speciali reattori nucleari a uranio che producono, oltre a grandi quantitativi di energia, anche plutonio. Sono i cosiddetti reattori plutonigeni, politicamente molto pericolosi perché, anche se possono produrre energia per scopi civili come le centrali nucleari pacifiche, permettono di accumulare un sottoprodotto, il plutonio appunto, indispensabile per costruire potenti armi nucleari.
Il plutonio, come abbiamo detto, è instabile: tende ad emettere radiazioni e a decadere in uranio, nettunio ed americio. Inoltre, le radiazioni emesse possono rompere i legami molecolari dei materiali adiacenti. Per questo, i pit tendono ad invecchiare rapidamente ed è necessario sostituirli periodicamente all’interno delle testate nucleari. A questo punto, il problema è: che ce ne facciamo di questi pit scaduti?
Plutonio civile: un’idea pericolosa
La proposta di rendere i vecchi pit dl plutonio realizzati nel periodo della Guerra Fredda disponibili ai produttori di energia nucleare ha catturato l’attenzione del settore. L’idea consiste nel riutilizzare il plutonio estratto da testate smantellate, trasformandolo in carburante per reattori commerciali avanzati. Una virtuosa idea di economia circolare, ma applicata alle armi di distruzione di massa più potenti mai create dall’umanità.
Bradley Williams, dell’Idaho National Laboratory, ha sottolineato che l’iniziativa nasce dalla logica del “perché non ottenere elettricità utile da un materiale che dobbiamo comunque smaltire?” Secondo Williams, il plutonio potrebbe diventare una componente di carburante del futuro, ma non si possono sottovalutare i gravi rischi connessi. Dal punto di vista della sicurezza, la gestione di plutonio ad alto grado di arricchimento è complessa e potenzialmente a rischio di proliferazione nucleare. Ross Matzkin-Bridger, della Nuclear Threat Initiative, ha ricordato come il plutonio rappresenti più un peso che un asset: nessuna azienda privata, ha sottolineato, si assumerebbe volentieri la responsabilità di garantire la sicurezza nella sua gestione, stoccaggio e trasporto. Praticamente tutti i terroristi del mondo, dalle piccole bande come Hamas agli Stati come l’Iran, non vedrebbero l’ora di mettere le mani su un materiale così prezioso per creare bombe nucleari o anche solo bombe sporche convenzionali destinate a rendere radioattivo il territorio del nemico.
Già in passato, nel 2000, un accordo USA-Russia aveva previsto la conversione del plutonio in carburante MOX (Mixed Oxide Fuel), ma il progetto ha incontrato enormi sforamenti di budget e problemi logistici, al punto che nel 2018 la prima amministrazione Trump ha cancellato il contratto MOX. Una parte del plutonio – dopo opportuni trattamenti chimici di diluizione per garantire una relativa sicurezza – è stata quindi trasportata e sepolta presso il Waste Isolation Pilot Plant (WIPP) del New Mexico. Nonostante le difficoltà del programma MOX, altri progetti del Dipartimento dell’Energia (DOE) hanno avuto maggior successo nella ricerca di metodi per riciclare materiali nucleari, come evidenziato da John Kotek del Nuclear Energy Institute.
La gestione dei pit, un’odissea sempre più costosa
La gestione dei pit si configura come un vero e proprio incubo industriale e finanziario. I pit costituiscono, letteralmente, il nocciolo delle capacità deterrenti degli Stati Uniti. Il progetto per gestirli, avviato nel 2018 e destinato ai siti di Savannah River, South Carolina, e Los Alamos, New Mexico, è oggi anni indietro rispetto ai piani originali e miliardi oltre il budget iniziale.
Il Dipartimento dell’Energia a fine agosto ha ordinato uno “studio speciale” di 120 giorni per analizzare a fondo il progetto e la gestione dell’iniziativa pit. James Danly, vice-segretario dell’Energia da giugno 2025, ha espresso preoccupazioni crescenti sulla capacità della National Nuclear Security Administration (NNSA) di rispettare le scadenze e garantire la produzione nucleare necessaria. Ogni ulteriore ritardo, ha avvertito, comporta significativi aumenti di costo e rischi per la sicurezza nazionale.
Secondo Greg Mello del Los Alamos Study Group, il piano a due siti approvato sotto la prima amministrazione Trump — poi confermato dall’amministrazione Biden — è estremamente oneroso: costruire e gestire due fabbriche contemporaneamente sta venendo a costare tra quattro e sei volte più del previsto. Dylan Spaulding, dell’Union of Concerned Scientists, sottolinea che “la produzione e la gestione di pit su ampia scala, non è necessaria adesso” e che esistono alternative che non comprometterebbero la sicurezza nazionale ma favorirebbero un maggior controllo degli armamenti e a una maggiore stabilità globale.
I costi del programma nucleare USA: numeri da capogiro
I piani combinati 2025-2034 dei Dipartimenti della Difesa e dell’Energia per il complesso nucleare ammontano a 946 miliardi di dollari, secondo il Congressional Budget Office. Per capirci, stiamo parlando di 5 volte il budget annuale dell’intera Unione Europea. Questi includono grandi voci di spesa come il missile Sentinel, progettato per sostituire il Minuteman III, ma anche il finanziamento per la costruzione di nuove strutture per la gestione dei pit e la manutenzione di infrastrutture esistenti.
La produzione, la gestione, lo smaltimento e il riciclo dei pit presentano notevoli complessità ingegneristiche: ogni nucleo deve rispettare standard di precisione elevatissimi, con margini di errore minimi. La gestione dei materiali, la sicurezza dei siti e la qualità dei contratti con appaltatori esterni sono fattori critici che, secondo i documenti del Dipartimento dell’Energia, hanno contribuito ai ritardi e ai costi esorbitanti.
Tra rischi e opportunità geopolitiche
Il programma nucleare americano si muove dunque su un filo sottile: da un lato, la possibilità di trasformare plutonio in energia e di ricostituire capacità nucleari di deterrenza; dall’altro, l’esposizione a costi astronomici, inefficienze, rischi di proliferazione e pressione internazionale. La scelta di affidare lo studio speciale dell’Energia all’Office of Enterprise Assesment, solitamente dedicato a sicurezza cibernetica e ambientale, è stata letta come un segnale della gravità della situazione.
Nel contempo, gli analisti evidenziano che la NNSA opera attualmente con dirigenti ad interim, un fattore che contribuisce all’incertezza gestionale. Le lezioni del passato, come l’esperienza fallita del MOX, suggeriscono che i programmi nucleari richiedono una supervisione stabile, investimenti coerenti e strategie realistiche.
Gli Stati Uniti si trovano quindi a un bivio strategico: la tecnologia e il materiale ci sono, ma trasformarli in vantaggi energetici o militari richiede disciplina, fondi e capacità manageriali che attualmente mancano in modo preoccupante. Il plutonio civile potrebbe alimentare reattori avanzati, ma comporta rischi di sicurezza e proliferazione; la produzione dei pit è vitale per la deterrenza, ma incredibilmente costosa e in ritardo. La sfida, come sempre in politica nucleare, non è mai solo tecnica: è una questione di gestione, di leadership e di visione strategica.
Nel frattempo, miliardi di dollari vengono spesi mentre il tempo passa, i rischi aumentano e la comunità internazionale … osserva. Gli Stati Uniti dovranno scegliere se continuare a investire in programmi costosi e complessi o se reinventare la gestione dei loro asset nucleari, bilanciando sicurezza, economia e tecnologia. A questo quadro aggiungiamo un dettaglio: non si sa come le altre nazioni nucleari, a cominciare da Russia e Cina, stiano gestendo lo stesso problema nelle loro testate.
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