Dimenticanza del merito e trasformazione in un plebiscito pro o contro il governo, le insidie del referendum dove Meloni non ci metterà la faccia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 15-07-2014 Roma (Italia) Politica Protesta di FdI - An contro la riforma del Senato Nella foto Giorgia Meloni Photo Roberto Monaldo / LaPresse 15-07-2014 Rome (Italy) Protest by FdI - An party against the reform of the Senate In the photo Giorgia Meloni

Una premessa: le righe che seguono non entreranno nel merito dell’antica telenovela “politica vs. pm e pm vs politica”, che trova e troverà fin troppi appassionati interpreti nella lunga cavalcata fino al referendum della prossima primavera. Si limiteranno, invece, a ragionare sull’effetto di quel referendum sulla politica in generale e sul governo in particolare, partendo da qualche evidenza e da qualche pregressa esperienza.

Salvo i referendum abrogativi che avevano dentro tematiche d’immediato coinvolgimento, come i primissimi e partecipatissimi referendum sul divorzio o l’aborto, capaci di trainare al voto l’87,72% e 79,43%, l’andamento della partecipazione negli anni successivi è andato scemando, negando una trentina di volte su 67 il raggiungimento del quorum. C’è stata sempre una caratteristica che ha connotato il voto, soprattutto quando l’alacre attività pannelliana ha investito di democrazia diretta quesiti complicati da afferrare, inflazionando il delicato strumento: il merito è rimasto sullo sfondo, percepito solo rare volte. Ciò che ha fatto premio su tutto è stato invece lo scontro politico, spesso trasfigurando la consultazione con referendum sul governo, in un primo empito di bipolarismo conflittuale, che peraltro si addice assai alla scelta secca tra un sì e un no, in seguito consacrato nella pratica politica quotidiana della seconda e terza Repubblica.

Tra le diverse tipologie di referendum che il nostro ordinamento prevede, però, c’è anche quella che non contempla quorum di sorta, ed è il referendum confermativo contemplato dall’art.138 della Costituzione, che può sottoporre al giudizio popolare la legge costituzionale quando non raggiunge i quorum approvativi previsti. Il perché è chiaro: i Padri costituenti vollero salvare la Carta dalle manipolazioni di maggioranze pro-tempore, costringendo a convergenze le più ampie possibili, in mancanza delle quali si sarebbe tornati a chiedere che ne pensa il popolo sovrano. È il caso che riguarda la riforma varata dal governo Meloni.

Si sono svolti quattro referendum costituzionali che hanno due volte approvato e due volte invece bocciato la legge di riforma scodellata dal Parlamento e per tre volte su quattro hanno conteggiato una partecipazione maggioritaria (l’unica volta con l’affluenza “scarsuccia” è stata nel 2001 e riguardava la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra). Se eccettuiamo il voto del 2020 che vedeva tutti i partiti inseguire il nuovo karma populistico con cui si invitava a risparmiare sulle indennità dei parlamentari, i referendum hanno risposto alla regola non scritta di tramutare in voti le indicazioni dei partiti, privilegiando soprattutto la capacità organizzativa e mobilitativa di organizzazioni politiche e sindacali. Così è stato per la conferma del titolo V modificato, che vide il 64% dei pochi votanti pronunciarsi per il sì del centro-sinistra (ma anche di un po’ di Lega) in una stagione di pieno splendore berlusconiano, così è stato nel 2006, con la bocciatura della grande riforma della destra col 61% dei no, così è stato anche, a ben vedere, con il voto sulla grande riforma di Renzi che, col suo 40,88% di voti portò a casa solo (e forse neanche tutto) il voto del PD.

Questa è stata, dunque, l’esperienza del passato che ha lasciato in eredità due cose: la dimenticanza del merito e la trasformazione del referendum in un plebiscito pro o contro il governo. Andrà così anche adesso? Non c’è dubbio che nel paese in questo momento non circola un consenso palpabile nei confronti dei magistrati e in particolare dei protagonismi impropri di alcuni pm. E dunque, se la percezione che scaturisce dalla separazione delle carriere alla fine dovesse lasciar intendere una qualche forma di riequilibrio tra le parti in processo, probabilmente avrebbe il consenso della maggioranza. Ma il merito, come si accennava, è un dettaglio, il messaggio percepito sarà, come sempre approvare o condannare l’azione del governo e, per di più, il voto non prevede quorum. Dunque vincerà la capacità mobilitativa che non sembra patrimonio di una destra capace di volare col voto d’opinione catalizzato dalla Premier, ma arrancante sugli altri livelli di confronto elettorale. Peraltro, memore dell’epilogo toccato a Renzi che identificò il referendum del 2016 con sé stesso e fu costretto a lasciare dopo la sconfitta, Meloni non ci metterà la faccia. Dunque la partita sarà apertissima.