Perché nel 2022 la politica scolastica non vede ancora l’amministrazione a servizio di una mission pedagogica innovativa? Parto con il porre questa domanda perché sono convinto che non sia il solo ad avere una visione così lontana dalla realtà attuale. Ma andiamo per ordine. Trovo un po’ assurdo che autorevoli colleghi della Pedagogia Italiana, pur investendo tante energie intellettuali per la realizzazione di ricerche sul tema della formazione docenti e della didattica nelle scuole, vengano raramente valorizzati per la contestualizzazione progettuale e professionale dei loro risultati. Sono stati raggiunti preziosi traguardi scientifici sugli approcci trasformativi nell’ambito della didattica…, eppure?
Il Ministero dell’Istruzione non ne ha mai fatto tesoro in modo funzionale, non si è mai posto come interfaccia tra innovazione scientifica e pratica didattica. Certo, va riconosciuto che la scuola negli ultimi 20-30 anni ha manifestato una grande sofferenza determinata (anche qui con quale disegno?) da repentine modifiche normative ed ordinamentali poco metabolizzate. In parallelo, la ricerca pedagogica e didattica è cresciuta qualitativamente, facendo sì che la distanza, culturale e progettuale, tra Università e Scuola aumentasse ulteriormente. I risultati di questa distanza si rendono tangibili se osserviamo il trend negativo della dispersione scolastica – dove la Campania, in particolare Napoli, tende spesso a primeggiare – o se consideriamo i risultati di apprendimento che confermano ed alimentano il gap storico tra gli studenti del Meridione e quelli del Settentrione.
Certamente la realtà territoriale gioca il suo ruolo, ancor più i genitori, ma quanto si è veramente capitalizzato dell’innovazione didattica per consentire ai dirigenti e ai docenti di adottare approcci che facessero “innamorare” gli studenti della scuola come luogo da abitare in uno stato di benessere psicofisico? E di chi è la responsabilità se non di coloro che non indossano le lenti antropologiche che fanno percepire i bisogni reali dello studente del presente e del futuro? Da decenni, infatti, i due Istituti viaggiano con ritmi, modalità e risultati diversi, senza che le istituzioni governative ed amministrative (MI, USR), deputate alla gestione del sistema educativo italiano, le connettessero, attribuendo loro rispettivamente il ruolo di generatrice e sperimentatrice dei “saperi”.
Ma perché il Ministero dell’Istruzione negli anni non ha edificato questo “ponte” tra queste due agenzie, così da tras-formare dignitosamente i nostri studenti, cittadini del domani? Ecco, qui entra la mia cruda lettura della realtà. Da decenni, infatti, a Trastevere si opera secondo una visione lineare, deterministica, frutto di una vision guidata dalla contabilità, dalle carte in regola e dai mille paletti burocratici che pongono barriere all’innovazione (per altro con risultati anche in questo ambito molto scarsi: docenti mancanti ad inizio anno, concorso ultimo fallimentare, ecc.), negando alla didattica di esprimersi nel pieno delle sue potenzialità, così da determinare quel meritato cambiamento di cui abbiamo un urgente bisogno. Le direzioni generali, escluso alcune preziose eccezioni (come per nostra fortuna il DG per l’USR Campania, Ettore Acerra, da pochi mesi insediato), sono guidate da tecnici del mondo giuridico ed economico che di realtà e pratica scolastica conoscono ben poco, se non nulla.
Come si può pensare che la scuola cambi paradigma (organizzativo e didattico) se al vertice non esistono menti con vision pedagogica? E non mi si venga a dire che il Ministero si serve di esperti e saggi chiamati come consulenti! Non sarà certamente un consulente pedagogico a far indossare nuove lenti ad un direttore generale di stampo economico-giuridico; quella forma mentis organizzativa, manageriale e capace di far quadrare i “conti”, pur necessaria, non deve rappresentare la guida della nostra gestione del sistema educativo, ma solo il supporto, il sostegno tecnico con cui accompagnare un progetto ampio, trasformativo, paradigmatico che solo un esperto di pedagogia e di scuola può vedere all’orizzonte. Non è così che funziona la nostra mente.
Gli studi sulle Neuroscienze ce lo insegnano: ciascuno di noi percepisce il mondo in base alle azioni che è spinto a compiere, secondo il suo vissuto e la sua formazione professionale costruita negli anni. Cambiare i vertici e far guidare le direzioni generali da professionisti competenti nell’ambito dell’educazione – cioè di pertinenza rispetto al servizio previsto (così come accade in altri dicasteri) – è compito e dovere del Ministro dell’Istruzione il quale, in quanto responsabile delle scelte che compie sul piano politico istituzionale, potrà determinare o meno questa trasformazione che da anni le stesse scuole vorrebbero implementare. I dirigenti scolastici, nonché i docenti, sono soffocati da responsabilità per continui e inefficaci adempimenti amministrativi, limitando, a volte annullando, l’investimento di energie sulla creatività progettuale e sulla conduzione psico-pedagogica di un sistema complesso.
A Napoli, poi, le condizioni dell’edilizia scolastica rendono ancora più difficile l’esprimersi di tali innovazioni, facendo preoccupare e attenzionare i DS su documenti di rischio e sicurezza. Altro che open space e outdoor education, altro che aule con classi che si trasformano in componibili laboratori metodologici fruiti a rotazione, altro che connettivi (corridoi, atri) da vivere intellettualmente ed emotivamente come luogo della costruzione della conoscenza…, da noi manca spesso la palestra, cadono calcinacci e, in casi estremi, tocca contribuire per l’acquisto della carta igienica. Se al Ministero forse risulta poco chiaro, è bene ribadire che la scuola è costituita da persone e non da numeri, da variabili connesse al territorio non gestibili secondo direttive categoriche e poco situate, da esseri umani in cui prevalgono le passioni, gli entusiasmi e i desideri di crescere e formarsi e non le fredde esecuzioni adempitive per soddisfare le carte e la burocrazia che deresponsabilizza i vertici.
Mi si potrebbe obiettare che le scuole sono autonome e godono di scelte libere, sia sul piano organizzativo che didattico. E allora vogliamo chiederci se il personale è direttamente selezionato dalla scuola, pur avendo l’istituto la responsabilità dei risultati? Non mi risulta. Di che autonomia stiamo parlando? Potrei fare un elenco di motivi che fanno emergere con chiarezza quanto la scuola, pur se riconosciuta a livello attuativo dal DPR n.275 del 1999 come giuridicamente autonoma, di fatto è caricata ancora di troppe zavorre burocratiche (curricolo nazionale architettato secondo ancoraggi disciplinaristi) che la vincolano, senza citare l’obsolescenza della normativa sulla progettazione degli spazi educativi.
Il problema è che spesso queste stesse zavorre si traducono in “mentali e culturali”, ancorando così la scuola ad un vecchio modello di massificazione nozionistica del sapere, orientata al raggiungimento di prestazioni standard, che non consentono, giustappunto, di adeguarsi ai tempi della nostra società liquida, dove la conoscenza è dinamica e la formazione deve agevolare la costruzione autonoma di competenze fruibili e non di asettiche rappresentazioni pre-confezionate astratte, peraltro misurate a livello quantitativo.
Ora… sono giunti consistenti finanziamenti grazie al PNRR: che vengano spesi in modo ottimale ed efficiente per avviare realmente questa trasformazione e non per fare acquisti giusto per, in assenza di un vero disegno progettuale, casomai per vendere l’immagine di un cambiamento scritto sulla carta e, di fatto, inesistente. All’Onorevole Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei Ministri in pectore, in qualità innanzitutto di uomo di scuola, chiedo semplicemente l’attenzione che l’educazione merita: che il prossimo Ministro dell’Istruzione sappia attribuire posizioni verticistiche a chi sa guardare oltre la scrivania dell’Ufficio che dirige!
