Il governo potrebbe giurare già il 22
Verso il governo Meloni: dagli screzi con Berlusconi al buco nero del Tesoro, tutti i nodi da sciogliere

Giacca blu, bottoni d’oro, raggiante, le dita con la V di vittoria, sorrisi. Giorgia Meloni chiama a raccolta le sue 184 “carte vincenti” (sic), 118 alla Camera e 66 al Senato, per vincere la partita più difficile. In prima fila ci sono i fondatori e i pionieri di questo lungo viaggio (La Russa e Crosetto che si era seduto in piccionaia perché non è parlamentare), i capigruppo Ciriani e Lollobrigida.
Davanti, seduti nei banchi dell’aula dei gruppi parlamentari della Camera, gli eletti. Cravatta per gli uomini, foulard per le signore. Austeri ed eleganti. È il loro primo giorno di scuola. Coincide anche con l’apertura delle procedure di accredito per gli eletti della XIX legislatura. A Montecitorio c’è il fermento delle cose che iniziano. A Kiev, però, sono tornate a cadere le bombe. E i movimenti si stanno organizzando per tornare in piazza contro il caro bollette. La regia è del Movimento “Io apro”, quello no mask e no pass. Un anno fa Fratelli d’Italia era all’opposizione e strizzava l’occhio a queste piazze. Adesso la storia va al contrario. Non sono buoni auspici.
«Se e quando il presidente della Repubblica dovesse affidarci l’incarico – prende la parola la leader – puntiamo ad essere pronti e il più veloci possibile, anche nella formazione del governo. Lavoreremo per procedere spediti partendo dalle urgenze dell’Italia, come il caro bollette, l’approvvigionamento energetico e la legge di bilancio». Il “nostro obiettivo” ha rimarcato Meloni «è correre, perché non possiamo e non vogliamo perdere tempo. Tutto quello che faremo sarà per difendere gli italiani e non saremo mai disposti a fare scelte che vadano contro l’interesse nazionale». Fin qui ci siamo. A parole è facile. I fatti sono un’altra storia. E i fatti dicono che la squadra di governo non è ancora pronta per una serie di veti incrociati. Possiamo anche chiamarle “condizioni imprescindibili” degli alleati. E non solo. Il Quirinale che Costituzione alla mano (art. 92) nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio ha posto come condizione di avere tecnici anche di area in tre ministeri chiave: Interni, Giustizia, Finanze.
Su questo primo obbligo si sono consumate le ultime due settimane. Non è stato facile convincere Salvini che non poteva tornare al Viminale (è sotto processo per la Open Arms). E non è stato facile convincerlo che “non si tratta di veti ma di opportunità politica e di rispetto delle garanzie istituzionali”. Le nebbie su questi tre ministeri si stanno diradando. Al Viminale, al posto di Salvini, dovrebbe andare il prefetto di Roma Matteo Piantedosi che del leader della Lega è stato capo di gabinetto nel Conte 1. Ugualmente non è stato facile convincere Salvini e anche Meloni a dir la verità, che alla Giustizia non poteva andare Giulia Bongiorno (senatrice e avvocato difensore di Salvini) o l’ex magistrato Carlo Nordio indicato da Giorgia Meloni e protagonista, forse, di qualche intervista di troppo. A sorpresa, invece, il ministero di via Arenula potrebbe andare all’ex presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Per la gioia di Silvio Berlusconi (è una sua fedelissima) e anche del Quirinale che avrebbe dato semaforo verde per la sua nomina.
Il buco nero resta il Ministero delle Finanze, la casella più importante. La prima da riempire in tempi come questi, difficili e pieni di incognite. Forse è per questo che Meloni sta raccogliendo una serie di rifiuti. Panetta punta alla banca d’Italia e non ne ha mai fatto mistero. Scannapieco preferisce restare in Cassa Depositi e prestiti. Resta la carta Siniscalco, che è già stato ministro in due governi Berlusconi. E la possibilità – su cui si sta ragionando anche con il Quirinale e con Draghi – di dividere in due il ministero e affidare l’Economia al ministro uscente Daniele Franco (che lo farebbe solo se lo chiede il capo dello Stato) e le Finanze al fidatissimo Maurizio Leo, responsabile economico di Fdi e stimato professore, il teorico del “più assumi e meno paghi” e il nemico numero 1 dello scostamento di bilancio. Nelle ultime ore qualcuno, nel centrodestra, sta mettendo sul tavolo il nome di Renato Brunetta. Il ministro uscente alla Funzione Pubblica ha lasciato Forza Italia (dopo la crisi di governo) ma non ha scelto altre squadre o strade. Non si è neppure ricandidato. Si è, senza troppo insistere, messo silenziosamente a disposizione. Di sicuro avrebbe le competenze per questo ruolo.
L’economia è la casella più difficile da riempire. E, come si vede, la soluzione è ancora lontana. Il resto della partita è stata complicata dai due soci di maggioranza. L’incontro a tre sabato ad Arcore, concluso con quel comunicato gelido che non diceva nulla, è servito a fissare le regole del gioco. Saranno 23, massimo 24 ministeri, più o meno lo schema dell’esecutivo Draghi. Lega e Forza Italia, che pesano meno di un terzo (8%) del complessivo di Fratelli d’Italia (26%) hanno preteso di avere a testa cinque ministeri. Di cui 2/3 di peso, non basta neppure il portafoglio. Dieci su ventitré è una sproporzione, viste le forze in campo, che si giustifica solo in un modo: ok, tu Meloni hai vinto – ragionano i soci di minoranza – perché sei stata comodamente all’opposizione mentre noi facevamo i responsabili ma senza di noi non solo non governi, non hai neppure la maggioranza”.
Eccolo qua il macigno che manda in bestia la leader di Fratelli d’Italia con cui però è costretta a fare i conti per iniziare a governare. E a fare un po’ di quello che ha promesso. Accettato così lo schema 5+5 ai soci di minoranza, Meloni si è allora ripresa la seconda carica dello Stato. La presidenza del Senato andrà a Ignazio la Russa. Ma Salvini voleva Calderoli. E Berlusconi aveva rimesso in campo Anna Maria Bernini. Bocconi amari da inghiottire. “Ma non penseranno mica – dice una fonte di Forza Italia – di prendere oltre a palazzo Chigi anche il Senato che è la seconda carica dello stato?”. E invece ci ha pensato eccome: tu vuoi cinque ministeri, uno sproposito – ha ragionato Meloni – e io mi prendo le istituzioni. Che, tra l’altro, in una legislatura hanno vita assai più lunga rispetto a un ministero. E ad un governo.
A questo punto la presidenza della Camera andrebbe alla Lega che ha indicato il capogruppo uscente Riccardo Molinari. Su questa casella stanno però arrivando le attenzioni di Antonio Tajani che Meloni vorrebbe agli Esteri come assicurazione rispetto ad europeismo ed atlantismo (Tajani è stato presidente del Parlamento Europeo ed è numero 2 del Ppe). Tajani però vorrebbe tirarsi fuori dal gioco del totoministri. Sottrarsi al gioco dei veti incrociati. Che riguardano anche Berlusconi. Il quale – sarà in Senato per la prima giovedì mattina – non molla un centimetro rispetto all’incarico di peso per Licia Ronzulli. “Sanità o Istruzione o Turismo” scandisce bene le opzioni Silvio Berlusconi che non pare non passi giorno senza ricordare a Giorgia le sue priorità di fedele alleata.
Peccato che Meloni non abbia alcuna intenzione di mettersi in squadra Licia Ronzulli: non è questione di meriti o demeriti; ne conosce l’abilità nel cavalcare divisioni e malesseri. Insomma, un cavallo di Troia pronto a colpire. Giovedì mattina si riuniscono le camere (ore 10). Giovedì sera si dovrebbe conoscere il nome del presidente del Senato. Per la presidenza della Camera servirà aspettare venerdì mattina. Ancora in alto mare invece per i capigruppo, l’altro tassello fondamentale per iniziare le consultazioni al Quirinale e dare l’incarico di formare il governo a Giorgia Meloni. Qui ci sta che le opposizioni, ne hanno il diritto e la facoltà, vogliano tirare un po’ per le lunghe e arrivare a lunedì della prossima settimana.
Da quel momento, diciamo martedì, tutto dipenderà dalla politica, come e quando cioè il centrodestra troverà la quadra su assetto e nomi del nuovo esecutivo. E dal gradimento di Mattarella. Ci sono poi alcune date che condizionano il giuramento: il 20 e 21 ottobre al Consiglio europeo andrà Mario Draghi; il 23 e 24 ottobre il presidente Mattarella sarà impegnato per alcune ore a ricevere Emmanuel Macron a Roma per partecipare alla conferenza sulla pace della comunità di Sant’Egidio e per essere ricevuto dal Papa. Ciò non toglie che il 22 mattina Meloni possa ricevere l’incarico e, se tutto va bene, procedere al giuramento nelle ore a seguire.
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