1. Come lo sparo per i centometristi, così il trionfo elettorale ha fatto scattare in Fratelli d’Italia la vocazione al ruolo di nuovi Costituenti. Non subito, perché le crisi in corso impongono altre priorità. Eppure, tutto ciò che potrebbe accadere accadrà, perché le riforme costituzionali hanno un’irresistibile carica simbolica, disarticolano le opposizioni, assicurano gli equilibri di governo (ad esempio, con il tandem presidenzialismo-autonomia differenziata). È solo questione di tempo.

Sperando non sia retrotopia, che cosa hanno in mente Meloni e i suoi colonnelli? Invece di almanaccare attorno a quanto detto sulla Costituzione âgée, più utile è guardare ai loro progetti di legge costituzionale: è il giusto modo per farsi un’idea esatta di cosa e come i Fratelli d’Italia intendano modificare la Costituzione. Verba volant scripta manent: diventa così possibile testare l’attendibilità delle rassicuranti dichiarazioni secondo cui «nessuno vuole stravolgere la Costituzione, non intendiamo toccare i valori fondanti contenuti nella sua prima parte» (on. Lollobrigida, la Repubblica, 28 settembre).

2. Un’onda d’urto: è questa l’impressione che si ricava dalle diciannove revisioni costituzionali a firma Meloni (e altri) depositate nella scorsa legislatura: nove investono i principi fondamentali e i diritti e doveri dei cittadini; nove riguardano l’ordinamento della Repubblica; una – su cui tornerò – attiene al metodo da seguire per cambiare la Costituzione.

Le prime mirano a ridisegnare le coordinate costituzionali del diritto punitivo, agendo sulla responsabilità penale (AC 116), sul finalismo rieducativo della pena (AC 3154), introducendo il diritto alla sicurezza (AC 2954) e la tutela delle vittime dei reati (AC 117). In chiave simbolica e identitaria riconoscono in Costituzione, accanto al tricolore, l’inno nazionale e l’italiano come lingua ufficiale (AC 677). Inseriscono nel suo testo la tutela dell’ambiente (AC 2150), l’accesso alla pratica sportiva (AC 731), «il diritto alla felicità» come «limite al potere dello Stato di guidare i nostri destini» (AC 2321).

Tra le seconde, alcune ridisegnano la forma di governo con l’elezione diretta del Capo dello Stato (AC 716), l’abolizione dei senatori a vita (AC 1914), la modifica dei requisiti d’età per l’elezione al Quirinale e alle Camere (AC 295 e 1873), l’introduzione del giuramento per i parlamentari (AC 2304), l’obbligo di lealtà elettorale nelle alleanze di Governo e il mandato imperativo (AC 2366). Altre incidono sulla forma di Stato, riconoscendo lo statuto peculiare di Roma Capitale (AC 3188), introducendo un limite costituzionale alla pressione fiscale complessiva (AC 299) e rovesciando i rapporti tra ordinamento interno e UE in nome del principio di sovranità nazionale (AC 291 e 298). Dunque, sono revisioni che riguardano tutta la Costituzione.

Dire, oggi, che s’intende modificarne solo la parte organizzativa è mero camouflage costituzionale. Inevitabilmente, perché la Costituzione non si lascia spaccare a metà con un colpo d’ascia. Lo sanno anche i Fratelli d’Italia e lo scrivono pure: a causa della «profonda connessione» tra le due parti, «ogni modifica dell’assetto istituzionale […] finisce, inevitabilmente e funzionalmente, per incidere sulla forma e sulla sostanza dei diritti sanciti nella parte I» (AC 3541).

3. Ciò detto, è legittima tale smania riformatrice? Intendiamoci: «modificare la Costituzione non è un attentato alla Costituzione» (Sabino Cassese, Corriere della Sera, 29 settembre). È previsto nel suo art. 138. Ed è accaduto spesso: sono una trentina le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali approvate in deroga o ad integrazione della Carta fondamentale. Ed è proprio dell’ultima legislatura il record di modifiche costituzionali deliberate: riduzione dei parlamentari (n. 1 del 2020), voto ai diciottenni per il Senato (n. 1 del 2021), tutela dell’ambiente (n. 1 del 2022), riconoscimento dell’insularità e superamento dei relativi svantaggi (AC 3353-B, approvata a maggioranza assoluta il 28 luglio scorso, a camere sciolte).

Il tormentone della Costituzione intoccabile perché «la più bella del mondo», oltre che falso, è pericoloso: come una sveglia dalle lancette ferme, indurrebbe a metterla da parte e – prima o poi – a sostituirla. La rigidità della Costituzione, infatti, è una garanzia innanzitutto procedurale: non ne assicura l’intangibilità, semmai un prudente aggiornamento attraverso un iter legislativo aggravato, finalizzato al più ampio consenso parlamentare possibile. Non è superfluo ribadirne la ratio: evitare che i diritti e le libertà dei vinti (e di tutti i cittadini) siano alla mercè dei vincitori. Detto meno brutalmente: sottrarre la Costituzione alla maggioranza parlamentare del momento, perché i suoi princìpi e le sue regole appartengono a tutti e non sono nella disponibilità di nessuno in particolare.

4. Fin qui, il fusibile dell’art. 138 ha funzionato. Preponderanti sono state le leggi costituzionali approvate a maggioranza qualificata (i due terzi di Camera e Senato). Delle quattordici approvate invece a maggioranza assoluta, solo quattro sono state oggetto di referendum, caduto come una ghigliottina su due di esse: la c.d. devolution voluta dal centrodestra (25-26 giugno 2006) e la riforma Renzi-Boschi (4 dicembre 2016).

Oggi, però, quel fusibile potrebbe saltare: «la destra può farcela da sola, avendo superato la maggioranza assoluta dei componenti delle due camere. E se qualche voltagabbana o utile sciocco si rendesse disponibile, potrebbe persino prevenire il referendum ex art. 138» (Massimo Villone, Il manifesto, 29 settembre). Oppure – come ha fatto irresponsabilmente in passato il centrosinistra – potrebbe usarlo in chiave plebiscitaria, trasformandolo in una ola capace di raccogliere curve e tribune di tifosi, a prescindere dal merito del quesito referendario. Sul punto, le intenzioni dichiarate sono concilianti: auspicano un confronto con gli altri partiti, «evitando fino alla fine i voti a maggioranza» (on. La Russa, Il Sole 24 Ore, 28 settembre).

E così dovrà essere, e non per generosa concessione ma per rispetto al principio di realtà: maggioranza in Parlamento, le destre rappresentano percentualmente la minoranza del corpo elettorale. A fortiori se si considera l’affluenza alle urne (pari al 63,9%), la più bassa di sempre per una consultazione politica generale segnata da quasi 18 milioni di elettori non votanti. Dati questi dati, una revisione costituzionale unilaterale rappresenterebbe un colpo di mano: legittimo de iure, eversivo de facto.

5. Decisivo, per capire le reali intenzioni delle destre, sarà il metodo prescelto per le revisioni costituzionali che verranno. Lo strumento indicato da Fratelli d’Italia è l’«istituzione di un’Assemblea per la riforma della parte II della Costituzione» (AC 3541, presentato il 28 marzo 2022): cento componenti, eletta con legge d’impianto proporzionale, preclusa a chi è già parlamentare o membro di assemblea o giunta politica (regionale, provinciale, comunale), in carica per un anno, non prorogabile, chiamata ad approvare a maggioranza qualificata un’unica legge di revisione complessiva «in deroga alle procedure previste dall’art. 138 della Costituzione».

L’implicito sovrasta l’esplicito: la generica litote di «assemblea» tace la sua natura costituente. Che sia tale, però, lo rivela la sua finalità: rappresentare simbolicamente «il momento in assoluto più alto immaginabile» dove «istituire un consesso di puro spirito costituente». Costituente è pure il compito assegnatole: prefigurare l’organizzazione della Repubblica e decidere «in quale modo tale nuovo assetto possa informare, in senso e contesto, i diritti che, pur formalmente intoccati, appare chiaro assumeranno una differente fisionomia nella rinnovata architettura istituzionale». Testuale. Così la proposta tracima in qualcosa che non è più una revisione costituzionale, la quale è semmai esercizio di potere costituito: vincolato, cioè, a regole e principi che ne limitano mezzi e fini. Ci sono cose che non si possono fare. Ecco perché se ne cela il nome proprio, come in questo caso.

6. Qui il tema si fa incandescente. La Costituzione, infatti, non è un esoscheletro senza corpo. Ha un suo corredo genetico fatto di «princìpi supremi» che – come insegna la Consulta – «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali» (sent. n. 1146/1988). Principi supremi che non si esauriscono – come sbrigativamente è scritto in AC 3541 – nella forma repubblicana (art. 139 Cost.) e in una generica «coerenza» con la parte I della Carta costituzionale.

Invocarli come cavalli di Frisia a possibili revisioni costituzionali non è un espediente esorcistico, né prefigura futuri appelli pubblici, elegantemente redatti e autorevolmente firmati ma inesorabilmente innocui. La vera sostanza è nel loro statuto giuridico: se i princìpi supremi definiscono una soglia impossibile da valicare, quella soglia va custodita dal Presidente della Repubblica a monte, e dalla Corte costituzionale a valle. Entrambi i custodi della Costituzione sono tenuti ad agire per neutralizzare l’apparente paradosso di una legge formalmente costituzionale ma, in realtà, anticostituzionale.

Tale appare la prospettata revisione dell’art. 27 Cost., in materia di funzione della pena (AC 3154), come qui ha già scritto Salvatore Curreri (Il Riformista, 16 settembre). Tali sono certamente le modifiche proposte agli articoli della Costituzione concernenti il rapporto tra ordinamento italiano e UE (AC 291 e 298), come ben argomentato altrove da Andrea Manzella (Corriere della Sera, 26 settembre), Andrea Morrone (Domani, 30 settembre) e Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 2 ottobre). La Costituzione, regola e limite al potere, è quasi tutta modificabile. La differenza sta tutta in quel quasi. Ma è una differenza enorme.