Nell’attuale fiera delle promesse elettorali, dove i partiti fanno a gara a chi le spara più grosse (con buona pace del nostro enorme debito pubblico di cui guarda caso nessuno parla), sarebbe davvero l’ennesima occasione sprecata se il tema delle riforme istituzionali fosse affrontato con spirito propagandistico anziché con la serietà e il rigore che merita.

È vero che quarant’anni di inutili discussioni e di proposte fallite non depongono in tal senso. Come è anche vero che i partiti formulano le loro proposte politiche per vincere le elezioni anziché cercare di vincere le elezioni per realizzare le loro proposte politiche (A. Downs). Ma non sarebbe affatto scandaloso, anzi sarebbe molto opportuno che i partiti politici rendessero chiare agli elettori – e forse anche a loro stessi – se e in che modo intendano rimediare alla cronica debolezza delle nostre istituzioni politiche. Una debolezza cui dapprima suppliva la forza dei partiti politici e la “stabile instabilità” garantita dalla continuità al potere della Democrazia cristiana ma che oggi, dopo il fallimento della “scorciatoia” elettorale, va affrontata intervenendo sul rapporto tra Parlamento e Governo.

Il fatto che tali riforme debbano essere discusse e approvate dal Parlamento – peraltro secondo una procedura di revisione costituzionale meno aggravata rispetto a quella vigente in altre democrazie europee – non esclude affatto, anzi in certo senso presuppone che le forze politiche che vi saranno presenti ricevano anche su questo un mandato da parte degli elettori. Non si tratterebbe dunque di eleggere un’ Assemblea costituente, evocando un potere (quello di riscrivere la Costituzione) che una volta resuscitato potrebbe avere pericolose conseguenze; peraltro non si comprende in virtù di quale miracolo le forze politiche che comporrebbero tale assemblea troverebbero quell’accordo che invece finora non sono mai riusciti a trovare in Parlamento. Piuttosto si tratterebbe di riportare nella prossima legislatura proprio in Parlamento il tema delle riforme istituzionali, tentando un approccio più sistemico.

Bene quindi ha fatto, dal suo punto di vista, Fratelli d’Italia ha riproporre il tema della forma di governo presidenziale, non foss’altro per dimostrare, dal nostro punto di vista, quanto tale proposta sia sgrammaticata e sgangherata dal punto di vista istituzionale e inopportuna da quello politico. Sgrammaticata perché l’introduzione dell’elezione diretta del Capo dello Stato non si accompagna al pari rafforzamento delle istituzioni di garanzia e di controllo che servono in democrazia a far sì che ogni sistema di governo sia in equilibrio. Sgangherata perché unisce due elementi inconciliabili: quello presidenziale dell’elezione diretta del capo dello Stato, che nomina il Primo Ministro e quello parlamentare che permette alle camere non solo di sfiduciare ma anche (con la sfiducia costruttiva) di sostituire il Primo ministro sicché alla fine non si comprende su chi – tra Presidente e Parlamento – poggi la legittimazione del governo.

Inopportuna perché i sistemi a legittimazione diretta degli esecutivi – siano essi presidenziali come negli Stati Uniti e semipresidenziali come in Francia dove il potere esecutivo è condiviso tra Presidente e Primo Ministro – funzionano solo se alla base c’è una cultura politico-costituzionale omogenea, una condivisione di fondo delle scelte politiche fondamentali tra i partiti politici per cui esse non vengono messe in discussione qualunque sia la maggioranza. Oggi queste condizioni sono sempre meno presenti nelle nostre società sempre più eterogenee e frammentate perché attraversate da profonde fratture non più solo ideologiche, ma anche socio-economiche, all’interno delle grandi città (tra ztl e no) e tra queste e i piccoli centri, sulla politica estera e di difesa (europeisti contro sovranisti), catalizzate dall’aggressione russa, e sulla gestione dei flussi migratori.

Tale assunto trova peraltro puntuale conferma nell’attuale campagna elettorale. La vivace polemica sviluppatasi sulle origini e sul “fascismo 2.0” di Fratelli d’Italia (e, a nostro parere, ancor di più della Lega per Salvini) non è forse espressione dei (fondati) timori che una parte politica del paese nutre nei confronti della conformità ai principi e ai diritti costituzionali di alcune loro proposte programmatiche?: dal blocco navale contro i richiedenti asilo (dei cui diritti si dovrebbero occupare le autorità libiche…) all’estensione della flat tax, dalla messa in discussione della supremazia del diritto dell’Unione europea su quello nazionale al “ridimensionamento” della preminente finalità rieducativa della pena, tanto per far riferimento a specifiche proposte di riforma costituzionale formulate da tale partito nell’attuale legislatura.

Tutti timori che sarebbero comprensibilmente accresciuti qualora tali proposte potessero entrare nell’agenda di governo grazie a forme di governo, come quelle presidenziali o semi-presidenziali, che per loro natura consentono di trasformare la maggiore minoranza in maggioranza, finendo in tal modo per acuire, anziché superare, le profonde fratture esistenti, radicalizzandole, polarizzando il dibattito politico e così rischiando – come dimostrano proprio i casi di Stati Uniti e Francia – di spaccare il Paese proprio quando esso avrebbe bisogno piuttosto di unità per essere “ricucito”.

Tali considerazioni dovrebbero indurre le forze politiche e i commentatori non a riproporre un preconcetto e stantio conservatorismo istituzionale all’insegna dell’allarmistica difesa della Costituzione più bella del mondo, in certa misura causa di simili eccessi (se dici sempre no, è consequenziale alla fine fare propaganda e tentare strade semplificatorie) quanto affrontando il tema della riforma del nostro sistema parlamentare, introducendovi quei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del Parlamentarismo”. Era il 5 settembre 1946 quando l’Assemblea costituente approvò tale ordine del giorno proposto dall’onorevole Perassi. Siamo ancora fermi lì.