Giorgia Meloni ha avuto il merito, si fa per dire, di richiamare l’attenzione sull’art. 27 Cost.: ne ha proposto la modifica per impedire che, restando ferma l’attuale formulazione, la Corte costituzionale, alla scadenza del mese di maggio ed in assenza di un intervento legislativo, possa rendere definitivo il divieto del carcere ostativo. Fa specie che si chieda la modifica di uno dei precetti meno rispettati della Carta costituzionale, nel momento stesso in cui vi è il timore che possa finalmente trovare una, seppur parziale, attuazione.

L’art. 27 disegna, in effetti, un sistema penale molto diverso da quello che ha, sinora, trovato attuazione in Italia. A parte il divieto della pena di morte, che fortunatamente non è messo in discussione, enuncia tre principi fondamentali: la responsabilità penale è personale, l’imputato è presunto innocente, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il primo principio implica che il giudizio sulla responsabilità penale sia fortemente individualizzato, sulla base di una valutazione di colpevolezza, che vada a sondare fino in fondo quale sia stato l’atteggiamento psicologico di chi ha violato la legge. Esso rende, perciò, necessario un giudizio sulla colpevolezza centrato sulla specifica persona e che non si muova secondo stereotipi. Su quale sia la situazione effettiva rispetto all’applicazione di questo principio basta una considerazione.

Di fronte ad un sistema che registra la presenza di un numero inverosimile di incriminazioni, che secondo alcuni supera le seicentomila, il giudizio di colpevolezza è spesso una mera finzione per l’impossibilità di qualsiasi cittadino di avere effettiva contezza di tutti i divieti sanzionati penalmente esistenti. Ciò tanto più ove si consideri che spesso si tratta di incriminazioni artificiali, nel senso che non corrispondono ad esigenze avvertite nel sentire comune, ma frutto di valutazioni politiche contingenti. Se, poi, a questo si aggiunge che il numero delle incriminazioni di anno in anno sta crescendo ulteriormente, si comprende che il giudizio di colpevolezza non ha sovente alcun effettivo riscontro in una reale volontà di violare la norma.

Sulla presunzione di innocenza, la violazione di tale principio è sotto gli occhi di tutti. Pur lasciando da parte il tema di che uso ne facciano le Procure della Repubblica e i media, tema su cui è intervenuto un recente decreto legislativo di attuazione di una direttiva dell’Unione Europea, basta considerare che il primo a disattenderlo è il legislatore. Un esempio emblematico è offerto dalla cd. legge Severino, di cui i referendum sulla giustizia chiedono l’abrogazione. La legge, come noto, ha introdotto un sistema di decadenze e di sospensioni dalle cariche elettive, che, almeno in parte, è applicabile anche nel caso di sentenze non definitive. A questo deve aggiungersi che, nell’ambito sia dei rapporti con la pubblica amministrazione e sia delle società rispetto alle quali è richiesto un requisito di onorabilità a coloro che rivestono cariche amministrative o di controllo, la condanna anche non definitiva per determinati reati ha effetti preclusivi. Con buona pace della presunzione di innocenza, che dovrebbe, viceversa, essere operante sino alla definitività della condanna.

Sull’ultimo principio, infine, le violazioni sono, se possibile, ancora più manifeste. Il tema del sovraffollamento delle carceri, tale da non consentire che i detenuti abbiano quel minimo di spazio vitale, affinché non sia del tutto mortificata la loro dignità umana, si è già espressa, con una condanna dell’Italia, la Corte di Strasburgo. Si tratta, peraltro, di una violazione che continua ad essere perpetrata, nonostante le continue denunce di Rita Bernardini e delle associazioni radicali. Sulla palese illegittimità dell’ergastolo ostativo si è pronunciata la Corte costituzionale.
Ma vi sono anche altri aspetti del principio, che restano inevasi. Il primo, e più importante, è quello secondo cui le pene dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato. Basta, al riguardo, considerare la prospettiva meramente punitiva, che ha guidato il legislatore italiano soprattutto a partire dalla vicenda di Mani Pulite, per essere consapevoli di quanto quel precetto sia disatteso.

Del resto, perfettamente coerente con quella prospettiva è la circostanza che uno dei punti più deboli del sistema carcerario è l’attività volta a favorire la risocializzazione ed il reinserimento nel mondo del lavoro per chi sia detenuto. La funzione risocializzatrice è, difatti, oggi delegata esclusivamente alle misure punitive alternative al carcere. Per chi entra in carcere, viceversa, non vi sono, troppo spesso, percorsi di riabilitazione. L’altro aspetto, del principio della necessaria finalità rieducativa della pena, che è completamente pretermesso attiene al tempo tra la commissione dell’illecito e l’applicazione della sanzione. Il tema è completamente trascurato da chi (essenzialmente 5Stelle e Partito Democratico) invoca una punibilità illimitata nel tempo di chi abbia commesso reati. Ma una tale prospettiva presuppone che la persona resti la medesima pur nel trascorrere del tempo.

E tutti sanno che non è così. Il fluire del tempo e le esperienze che si assommano determinano spesso cambiamenti profondi nella personalità. Che, dopo molto tempo, è di regola mutata al punto di essere divenuta significativamente diversa da quella esistente al momento della commissione del reato. In definitiva, l’art. 27 della Costituzione traccia le linee di un sistema repressivo penale radicalmente diverso da quello concretamente attuato. Costituisce un versante particolarmente importante di mancata attuazione della “Costituzione più bella del mondo”. Ed è davvero singolare che chi strenuamente opera affinché la situazione delle carceri non cambi è tra chi con più violenza si oppone a che la Costituzione sia cambiata.

Un’ultima notazione. Chiedere di modificare l’art. 27 per impedire che vi sia quella parziale attuazione della norma, che sarebbe costituita dalla dichiarazione di illegittimità dell’ergastolo ostativo, è espressione di una visione rozza e primitiva della società e dello strumento penale. Non deve, allora, stupire se le candidature espresse da questa visione della società siano apparse, nelle recenti elezioni amministrative, del tutto inadeguate.