Oggi per i condannati alla pena dell’ergastolo cosiddetto “ostativo” l’unico mezzo per ottenere la liberazione condizionale dopo aver scontato almeno 26 anni di pena è la collaborazione con la giustizia. La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 97 del 2021, ha invitato il legislatore a modificare entro il mese di maggio del 2022 tale disciplina sostenendo a chiare lettere che «il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati. Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale».

Anche la Corte Europea con la sentenza Viola c. Italia del 2019 ha invitato il legislatore nazionale a consentire, oltre alla collaborazione di giustizia, un riesame della pena a partire dall’evoluzione della persona che valuti il progresso nel cammino della rieducazione, senza che si possa pretendere che la rottura con le organizzazioni mafiose si manifesti esclusivamente attraverso la collaborazione di giustizia. Oggi sono in discussione alla Commissione giustizia della Camera tre proposte di legge che, esaminate nel loro complesso, sembrano più orientate a salvaguardare le ragioni alla base del regime speciale di cui all’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario che al rispetto delle chiare e vincolanti indicazioni provenienti dalle due Corti: l’Associazione Antigone ha a questo proposito inviato una nota ai deputati della Commissione precisando in particolari tre punti fra quelli in discussione.

Il primo riguarda l’onere probatorio a carico del richiedente, che non potrà richiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, posto che incombe all’autorità provare, semmai, la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio.

Il secondo punto tocca le condizioni generali per accedere alla liberazione condizionale: una delle proposte in discussione prevede di aumentare la pena da scontare prima dell’ammissione al beneficio da 26 a 30 anni, ma tale aggravamento non sembra trovare alcuna giustificazione.

La terza questione concerne la proposta di attribuire la competenza unica nazionale in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, che diventerebbe così il giudice unico della pena per i reati più gravi di mafia essendo già competente per i provvedimenti di sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis e per i benefici per i collaboratori di giustizia.

Occorre un approccio al tema che sia rispettoso delle pronunce delle due Corti, costituzionale ed europea, e che tenga nel dovuto conto della realtà dell’ergastolo oggi. La percentuale degli ergastolani sul totale dei detenuti è salita dal 3,3% al 4,3%: essi nel 2004 erano 1.161, nel 2009 1.224, nel 2014 1.604, un numero che salirà dopo la riforma del rito abbreviato che ne esclude l’applicabilità per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore. Ciò è avvenuto sebbene le statistiche dell’Istat riportino una progressiva riduzione nel numero dei reati, specie di quelli più gravi: nel 2010 gli omicidi volontari sono stati 526, diminuiti a 345 nel 2018 mentre i sequestri di persona sono passati da 1436 a 960. Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua, si tratta perciò di oltre 1.250 detenuti che – salve le ipotesi di collaborazione – non hanno alcuna possibilità di reintegrazione sociale, come invece prescrive l’art. 27 della Costituzione.