La scarcerazione di Giovanni Brusca per fine pena ha sollevato, com’è era logico attendersi, un nugolo di polemiche. A venire in discussione in queste ore è il fatto stesso che un uomo di efferata violenza possa aver espiato la propria condanna e possa intraprendere una nuova esistenza senza la prova di un vero ravvedimento interiore. Reazione, sia chiaro, in gran parte giustificabile alla luce dei gravissimi delitti di cui Brusca si è reso protagonista e soprattutto quando a indignarsi siano le vittime innocenti e i loro parenti.

La legge sui collaboratori di giustizia che si è applicata a Brusca ha avuto un’esistenza tutt’altro che facile e ha, in gran parte, risentito di troppi plateali abusi in cui si è incorsi nel maneggiare il pericoloso strumento, almeno dall’arresto di Enzo Tortora in poi. Tanto che, nel 2001, la legislazione venne profondamente riscritta proprio per evitare il ripetersi di scandali, più o meno noti, nella gestione dei pentiti. Il fatto, poi, che anche queste modifiche, a distanza di venti anni, meritino di essere nuovamente considerate è un altro discorso che il vistoso attenuarsi della virulenza mafiosa per ora tiene in disparte. Si potrebbe discutere a lungo delle perduranti criticità del sistema e del preoccupante profilarsi di una generazione di inquirenti che, all’oscuro degli abusi di un tempo, appare spesso a traino, se non in balia, di qualche smaliziato dichiarante dai ricordi “a rate”. Se la storia tende a ripetersi, quella giudiziaria ancor di più e sarebbe bene por mano in modo più radicale al problema prima che si producano danni maggiori. D’altronde, nei suoi chiaroscuri, la vicenda dell’avvocato Amara sta lì a dimostrare quanto acuta sia le necessità di una più generale riforma delle norme relative alle cosiddette dichiarazioni eteroaccusatorie – a prescindere dal contesto mafioso o terroristico di riferimento – per scongiurare trappole o timidezze di sorta affidate solo al buon senso di qualche operatore di giustizia.

Un mondo turbolento e malmostoso, quindi, in cui si continua a registrare una pericolosa commistione di piani tra l’interesse dello Stato a procurarsi conoscenze qualificate circa la commissione di taluni reati, il vantaggio del pentito a poter usufruire dei benefici messi a disposizione dalla legge e la pretesa che la collaborazione con la giustizia debba promanare da una sorta di capovolgimento morale che nottetempo avrebbe diradato le nebbie della persa coscienza del resipiscente. Certamente alcune collaborazioni hanno una genesi di questo genere. Alcune volte è effettivamente successo che a rendere piena confessione siano stati uomini e donne liberi da ogni costrizione che hanno consapevolmente affrontato una pena che mai gli sarebbe stata comminata dallo Stato per i delitti da loro spontaneamente ammessi. Pochissime volte, sia chiaro. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti che mal reggono la detenzione carceraria e che, dopo un tempo più o meno lungo, decidono che sia arrivato il momento di vuotare il sacco per riconquistare più in fretta la libertà.

Quale che sia stato il percorso prescelto ha poca importanza o poca dovrebbe averne in generale. Il più contrito e penitente dei collaboratori potrebbe rendere dichiarazioni totalmente sprovviste di riscontri obiettivi e il più callido e infido dei pentiti potrebbe portare con sé messe di prove a sostegno delle proprie accuse. L’uno potrà aspirare al perdono divino, l’altro alle prebende statali di questa vita. E guai se non fosse così. Guai se si cedesse alla tentazione, come troppe volte accade, di poter supplire alla fredda e oggettiva valutazione dei fatti con la propria, ipertrofica autostima di infallibile investigatore. Gli annali sono pieni di inquirenti che pretendono di “fiutare” la genuinità del pentito, come se la natura li avesse dotati di un’infallibile bacchetta rabdomantica su cui fanno pieno affidamento, finendo poi per sbattere contro la mancanza di riscontri e le assoluzioni. Talvolta la lezione serve, malgrado i gravi danni collaterali che ha generato, altre volte il segugio la ignora e impreca contro i lacci e lacciuoli del sistema che ostacolano la ricerca della verità in nome di qualche superflua rassicurazione e garanzia.

È troppo avventato dirlo, ma a spanne potrebbe essere accaduto qualcosa del genere anche di recente per le prime, concitate indagini sul disastro della seggiovia di Mottarone, quando i cronisti erano estasiati a fronte delle iniziali notizie sulla crisi religiosa e sulle giaculatorie in carcere del primo sospettato che, immerso in cella nelle preghiere, aveva chiamato in correità gli altri. In fondo è proprio ciò che desideriamo. Vogliamo che il reprobo ammetta le proprie colpe e si liberi del peccato che ha commesso confessandosi in pubblico e chiedendo perdono; non vogliamo una solida e gelida collaborazione con la giustizia, ma l’ammissione corale dell’errore che ci fortifica e rassicura, rendendoci migliori, eticamente superiori, rispetto a chi sbaglia e lo riconosce con un atto di sottomissione. La celebrazione dell’autodafè, elaborato dall’inquisizione spagnola, in cui si proclamava la sentenza e si raccoglievano le abiure dei condannati. Nelle ultime settimane questo universo retorico è in fibrillazione e scricchiola.

L’ordinanza della Consulta sull’ergastolo ostativo ai benefici senza la collaborazione di giustizia, la pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione sull’affiliazione di mafia come mero atteggiamento interiore privo da solo di autosufficienza sanzionatoria, la liberazione di Giovanni Brusca di cui taluno lamenta che si ignori il vero ravvedimento interiore, sono nient’altro che le declinazioni di una grammatica giuridica che stenta ancora a fare laicamente i conti con l’insondabilità dell’animo umano, con l’inesplorabilità della coscienza, con l’impossibilità di misurare la rieducazione se non con canoni oggettivi ed esteriori. E questa, si badi bene, non è una resa di fronte alla dissimulazione astuta o al camouflage comportamentale, ma la indispensabile presa di consapevolezza che l’ordinamento quando viene a contatto con le opzioni interiori dell’uomo si deve ritrarre e giudicare le parole alla luce dei fatti e mai il contrario.