Lo si può ammettere senza sforzo, un certo brivido è inevitabile di fronte alla notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, l’uomo che a domanda diretta sul numero delle sue vittime non seppe rispondere: «Sicuramente più di 100 ma sicuramente meno di 200». E tuttavia quel comprensibile sussulto è del tutto immotivato dal punto di vista legale, come hanno segnalato la sorella di Falcone, la più eminente tra le cento e passa vittime di Brusca, e il fratello di Paolo Borsellino. Brusca è un pentito e come tale ha goduto di uno sconto di pena, che comunque è rimasta alta.

È uscito dopo 25 anni, senza mai aver goduto degli arresti domiciliari, a differenza di molti altri pentiti. Li ha chiesti più volte ma sempre ricevendo risposta negativa. C’è qualcosa di assurdo in un sistema politico che vara le leggi sui pentiti, li usa a man bassa, introduce persino, con il famigerato art. 41bis, una forma di carcerazione durissima, sconfinante nella tortura, al solo scopo di indurre pentimenti e poi trasecola di fronte all’applicazione di quelle stesse leggi. Con la levata di scudi di questi giorni Brusca paga una notorietà sinistra e non indebita. Ci sono stati collaboratori di giustizia altrettanto sanguinari, usciti di galera con maggiore anticipo senza che nessuno se ne accorgesse o comunque fiatasse. Quella torva celebrità è il prezzo dell’essere uno dei pochi sopravvissuti tra i killer di prima fila adoperati da Totò Riina nella grande mattanza passata alla storia come “seconda guerra di mafia” mentre si trattò di un golpe e dell’instaurazione di una dittatura feroce in quella che, a modo suo, era stata sino a quel momento una specie di democrazia. Quasi tutti gli altri sono morti, per lo più fatti ammazzare dallo stesso Riina: Pino Greco “Scarpuzzedda”, Filippo Marchese, Mario Prestifilippo. A quel livello sono scampati solo Nino Madonia, che non ha mai scelto di collaborare con la giustizia, e lui, Giovanni Brusca detto U Verru, il porco.

Brusca è figlio di Bernardo, capo della famiglia di San Giuseppe Jato, il più fedele alleato di Totò Riina e dei corleonesi, un viddanu come loro, niente a che vedere con l’aristocrazia mafiosa di Palermo sterminata da Totò “u Curtu” spesso mettendo in campo proprio i picciotti di don Bernardo e di suoi figli, Enzo e Giovanni. Nel libro-intervista a Saverio Lodato Ho ucciso Giovanni Falcone, l’aspetto più interessante ma anche raggelante, sono i racconti della “normalità” di Cosa nostra. Le feste. Le cene, spesso organizzate per festeggiare un omicidio. Gli scherzi, tra un’esecuzione e l’altra. Ne emerge il quadro di un mondo a parte, nel quale l’omicidio è a modo suo norma, e Brusca, quasi con candore, si sforza di dimostrare che in fondo don Totò non era quel mostro che sembra. Nell’intimità sapeva giocare con i più giovani e con i bambini.

Anche Brusca giocava con Giuseppe Di Matteo, di cui era stato padrino: figlio di Santino, uomo d’onore della famiglia di Altofonte. Poi Santino fu arrestato, iniziò subito a collaborare, fece i nomi dei responsabili di due attentati eccellentissimi, la strage di Capaci, quella dove saltarono in aria Falcone, la moglie e la scorta, e l’uccisione di Ignazio Salvo, cuore del potere andreottiano nell’isola. Brusca era dentro fino al collo in entrambi i fattacci. La strage la aveva organizzata, pianificata e diretta lui su mandato di zu Totò. Con le autobombe aveva già una certa esperienza: ne aveva usata una, insieme a Nino Madonia, per eliminare il magistrato Rocco Chinnici e la sua scorta, quasi 10 anni prima, nel 1983. A ammazzare Salvo c’era andato di persona, con Leoluca Bagarella e Nino Gioè.

Per tappare la bocca al pentito, fu Brusca ad avere l’idea di rapirgli il figlio. Travestiti da agenti della Dia lo prelevarono da un maneggio, il 23 novembre. Santino però non ritrattò. U Verru tenne il bambino prigioniero per 25 mesi, spostandolo da una località all’altra. Poi, dopo essere stato condannato in contumacia per l’omicidio Salvo, decise che non ne valeva più la pena e diede l’ordine «Aliiberati di lu cagnuleddu», Liberati del cagnolino. Fu strangolato e il cadavere venne sciolto nell’acido, anche quella un’abitudine: «Ne bastavano 50 litri per cadavere», spiegherà anni dopo in aula, aggiungendo che forse, se avesse avuto più tempo per pensare, l’esecuzione del figlioccio non la avrebbe ordinata. Una probabilità su mille, specificò, c’era. La liberazione di Brusca non è una sorpresa.

Era attesa, anche se è arrivata con un mese e mezzo d’anticipo. Non è neppure il primo del gruppo dinamitardo di Capaci a uscire di galera: Di Matteo e La Barbera sono liberi da molti anni. Dubbi sulla sua piena onestà come pentito ce ne sono. Mise da parte l’omertà quasi subito, appena un mese dopo essere stato arrestato con il fratello Enzo vicino ad Agrigento nel maggio 1996. All’inizio le deposizioni erano mirate, spesso bugiarde. Provò a tirare in mezzo Luciano Violante, accusandolo di aver cospirato con lui per colpire Andreotti. Secondo la consolidata pratica mafiosa i fare anche del pentimento un’arma prendeva di mira l’arcinemico Baldassarre Di Maggio evitando di chiamare in causa gli uomini d’onore a lui più vicini.

Entrò in contraddizione con le testimonianze del fratello, anche lui pentitosi in tempi record. Rischiò di perdere la qualifica di collaboratore di giustizia: pena scontata e 500mila lire al mese. Ci ripensò, ritrattò le prime testimonianze, iniziò a parlare sul serio anche se il dubbio che sul suo patrimonio proprio tutto non abbia detto è dilagante. Giovanni Brusca non è tipo la cui liberazione possa essere salutata con gioia e bottiglie di spumante. Ma non è neppure pensabile che nel suo caso si possa soprassedere su una legge voluta prima di tutto proprio dall’antimafia perché troppo famigerato. La sua scarcerazione, a pena scontata, era un atto dovuto.