Le stragi di Capaci e via D’Amelio potevano essere evitate? La risposta è secca: «Sì. Lo Stato ha abbandonato i due giudici e gli uomini che li proteggevano». Stavolta, però, non si tratta del solito ritornello consumato nelle troppo spesso retoriche celebrazioni dei due magistrati che col maxi-processo a Cosa Nostra distrussero il mito dell’impunibilità della mafia. Ma di uno studio meticoloso dietro gli attentati che nel 1992 cambiarono la storia italiana. Lo spoletino Francesco Macrì – da oltre vent’anni impegnato nel settore Sicurezza & Intelligence con un nulla osta di segretezza rilasciato dalla presidenza del Consiglio dei Ministri – grazie alla penna della giornalista Valentina Roselli, ha raccontato nel libro Quando il boss non telefona più, edito da Alpes, come un dispositivo tecnologico, il Jammer – oggi presente sulle macchine blindate di alcuni magistrati minacciati dalle organizzazioni criminali – sarebbe potuto essere utilizzato già trent’anni fa per evitare molte delle stragi che hanno insanguinato l’Italia. «Ma le istituzioni – dice Macrì – hanno fatto finta di niente».

Innanzitutto cos’è il Jammer?

Parliamo di un dispositivo in grado di bloccare la telefonia mobile e le radio frequenze delle bombe. Dunque un elemento tecnologico molto importante per la sicurezza che gli israeliani conoscono alla perfezione da tantissimi anni. Sono loro, infatti, i migliori a utilizzare questi dispositivi.

Lei come ne viene a conoscenza?
Avevo l’appalto, in qualità di tecnico elettronico, per le manutenzioni elettriche del supercarcere di Spoleto. Alcune aziende, proprio per evitare la diffusione, già allora vasta, dei cellulari nelle celle, avevano proposto di utilizzare dispositivi Jammer. Ma fecero un test che non funzionò. Da lì nasce la mia storia. Colsi al volo questa possibilità commerciale e mi misi a cercare un’azienda internazionale per capirne di più. Mi resi conto, dopo diversi studi, dell’importanza del dispositivo e del suo funzionamento. Così nel 1997 mandai un fax alla procura di Palermo, al tempo retta da Gian Carlo Caselli e dal sostituto Alfonso Sabella.

E che cosa successe?
A distanza di poche ore fui convocato in procura. Spiegai il funzionamento del Jammer e i due giudici rimasero sconvolti. Sabella mi chiese se questi dispositivi, usati in una certa maniera, avrebbero potuto sventare i due grandi attentati del 1992. Risposi di sì. Sabella chiamò l’allora questore Antonio Manganelli che conosceva il dispositivo tanto da farne una piccola cronistoria. Manganelli raccontò l’arresto di un latitante a Palermo, rivelando che il Jammer sarebbe stato utile nell’occasione, perché avrebbe evitato ai suoi agenti di andare sulla collina e scollegare l’interruttore del ponte Telecom per isolare le sentinelle di guardia al ricercato. Un gesto che gli venne rimproverato dall’allora amministratore delegato della Telecom Vito Gamberale che, in quell’occasione, chiuse un occhio.

Nonostante tutto, però, il Jammer, in quegli anni, continuò a non essere utilizzato: come mai?
Superficialità, ignoranza, colpevole noncuranza? Non saprei. Ho dedicato parte della mia vita per capire come Falcone e Borsellino siano morti proprio in quelle circostanze. E le domande, a distanza di ventotto anni, aumentano”.

Perché?
Dopo il fallito attentato all’Addaura, avvenuto il 21 giugno 1989, Falcone concesse un’intervista. Bisogna tenere presente che già il giudice chiese al ministero degli Interni la fornitura di un Jammer perché l’Fbi americano lo aveva informato dell’esistenza di questi dispositivi. Qualcuno, però, negò l’autorizzazione, dicendo che l’apparecchiatura avrebbe nuociuto alla salute. Nell’intervista Falcone parlò della saldatura tra la criminalità organizzata e parti dello Stato. E sapeva che quelle parti dello Stato si dovevano occupare della sua sicurezza. Ho studiato accuratamente la dinamica della strage di Capaci. È stata una vera e propria azione militare che non poteva assolutamente essere stata pensata dalla mafia, specialmente nella confezione e nella movimentazione dell’esplosivo.

Cosa l’ha spinta a raccontare in un libro questa storia?
Con Valentina Roselli abbiamo lanciato solo un sassolino in uno stagno. Già qualche anno fa ne parlai con Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, che ne rimase sconvolto. Lui ne fece un grande evento mediatico, sollecitando l’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano, affinché s’impegnasse per equipaggiare del dispositivo l’auto dove viaggiava il giudice Nino Di Matteo. E, dopo tanta fatica, ce l’ha fatta. Resta il rammarico, grande, che anche altri uomini minacciati dalle organizzazioni criminali si sarebbero potuti salvare. Questa storia dev’essere raccontata.