Il deposito delle motivazioni dell’ordinanza della Corte costituzionale 97/2021 sul cosiddetto ergastolo ostativo fa giustizia di troppo affrettate interpretazioni del comunicato stampa con cui essa era stata annunciata qualche settimana fa. E pone il legislatore di fronte alla responsabilità di un intervento equilibrato, libero dai condizionamenti del fazionismo urlato che, in queste materie, impera. È un’occasione da non perdere per più di una ragione.

Innanzitutto perché dopo mesi di marginalizzazione, dovuta anche alle vicende della pandemia, il Parlamento è chiamato a dimostrare di essere un organo vitale capace di assumersi le proprie responsabilità. L’abbandono dell’ubriacatura da Dpcm, il recupero dello strumento del decreto-legge (che il Parlamento deve convertire controllando così l’azione del governo), i compiti che a esso sono affidati nel quadro delle politiche di attuazione del Pnrr, restituiscono all’organo rappresentativo una centralità importante, seppur nella distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Si tratta di dimostrare che l’ubriacatura giacobina inneggiante alla democrazia della rete, da un lato, e la passiva subalternità a forzature operate con i poteri di ordinanza, dall’altro, non sono un ineluttabile destino per le nostre affaticate istituzioni.

Inoltre il Parlamento è chiamato a dimostrare la propria capacità di interloquire autorevolmente con l’organo di suprema garanzia costituzionale che ha, per la terza volta negli ultimi anni, scelto un’apertura molto significativa alla leale collaborazione istituzionale con il potere politico. La decisione di sospendere il giudizio di legittimità sull’ergastolo ostativo consentendo al Parlamento di intervenire, calibrando una disciplina che rientra nella sua discrezionalità, è un’ulteriore mano tesa al legislatore, malgrado la pessima prestazione nel precedente del caso Cappato. Anche in quell’occasione la Corte aveva dato tempo alle Camere, ma alla fine dovette decidere comunque, avendo preso atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza».
Il terzo motivo per il quale l’occasione è importante attiene al merito della questione. Siamo in un’epoca in cui sulla giustizia grava il cielo plumbeo di una crisi fatta di scandali, di sospetti e di drammatiche preoccupazioni per la tenuta di un sistema affetto ormai da mali endemici.

Di fronte a questa situazione, la politica, peraltro pesantemente coinvolta in molte vicende della giustizia, è tentata di proseguire in quella guerra di religione che ormai dura da decenni. Il fazionismo, le contrapposizioni ideologiche, le tifoserie dei talebani impazzano, esasperando conflitti che richiederebbero invece il rasoio di Occam per la delicatezza e la drammaticità di questioni che, in ultima istanza, si scaricano sulla carne viva dei cittadini. E le prime reazioni alla decisione della Corte, prima che ne fossero conosciuti i dettagli, non lasciavano ben sperare. Al contrario le motivazioni del giudice delle leggi fanno ragione delle posizioni più oltranziste, siano esse perdoniste o colpevoliste.
Anzi, si può, in una battuta, dire che la Corte ha deciso di offrire una chance al Parlamento proprio in considerazione della delicatezza della materia, della complessità delle decisioni possibili, che richiederanno anche valutazioni di merito politico in relazione alle varie possibili alternative. Una forma di deferenza verso la rappresentanza popolare che spetta al legislatore dimostrare di meritare. Il problema è complesso proprio perché non può ridursi al semplice annullamento delle norme sull’ergastolo ostativo.

La questione è nota e si risolve nella domanda: chi non ha collaborato con la giustizia può meritare di essere liberato (in via condizionale e poi, eventualmente, definitiva)? E la risposta della Corte parte da un approccio laico, in cui si fa strame di un doppio tabù. Quello per cui chi collabora possa dirsi per definizione “ravveduto” e quello per cui chi non collabora sia, per definizione, “pericoloso”. Il giudice delle leggi dà una lezione di cultura giuridica, rinunciando a una visione paternalistica e moralistica della politica criminale, ma cogliendone gli aspetti realistici e la necessità di distinguere. Non ci sono automatismi discendenti dall’avvenuta o mancata collaborazione: “La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali».

Ciò non significa squalificare il ruolo di chi collabora, ma significa guardarlo senza retorica in funzione dell’utilità per lo Stato. Chi non collabora dal canto suo, non può essere inappellabilmente tacciato di conservare legami criminali, anche ciò non vuol dire che la mancata collaborazione non possa suscitare sospetti che vanno dissipati attraverso un rigoroso e specifico scrutinio. Non è dunque un “liberi tutti”, ma, al contrario, il riconoscimento della necessità che siano adottate procedure, prima e dopo l’eventuale liberazione condizionale, volte ad accertare in concreto, con modalità severe e tranquillizzanti per la comunità, che il percorso di ravvedimento, malgrado la mancata collaborazione, possa dirsi effettivamente provato.

Per questo sarebbe più che opportuno l’intervento del Parlamento. Perché la calibratura di queste misure implica scelte discrezionali importanti nell’equilibrio tra principi costituzionali come l’interesse alla sicurezza dei cittadini e quello alla rieducazione dei condannati. Piuttosto che esultare o rammaricarsi per la decisione, la politica dovrebbe adesso dimostrarsi all’altezza della sua responsabilità.